Torquato Tasso- Rime d’amore – Libro I. Rime per Lucrezia Bendidio. 1561-1562. 1585

Torquato Tasso

RIME D’AMORE

Libro I.

Rime per Lucrezia Bendidio. 1561-1562.

1585

1

Questo primo sonetto è quasi proposizione de l’opera: nel

quale il poeta dice di meritar lode d’essersi pentito tosto

nel suo vaneggiare, ed esorta gli amanti col suo esempio

che ritolgano ad Amore la signoria di se medesimi.

 

Vere fur queste gioie e questi ardori

ond’io piansi e cantai con vario carme,

che poteva agguagliar il suon de l’arme

e de gli eroi le glorie e i casti amori;

e se non fu de’ piú ostinati cori

ne’ vani affetti il mio, di ciò lagnarme

già non devrei, ché piú laudato parme

il ripentirsi, ove onestà s’onori.

Or con l’esempio mio gli accorti amanti,

leggendo i miei diletti e’l van desire,

ritolgano ad Amor de l’alme il freno.

Pur ch’altri asciughi tosto i caldi pianti

ed a ragion talvolta il cor s’adire,

dolce è portar voglia amorosa in seno.

LIBRO I

RIME PER LUCREZIA BENDIDIO

1561-1562

1585

2

Descrive la bellezza de la sua donna e il principio del suo

amore, il quale fu ne la sua prima giovinezza.

 

Era de l’età mia nel lieto aprile,

e per vaghezza l’alma giovinetta

gia ricercando di beltà ch’alletta,

di piacer in piacer, spirto gentile,

quando m’apparve donna assai simile

ne la sua voce a candida angeletta:

l’ali non mostrò già, ma quasi eletta

sembrò per darle al mio leggiadro stile.

Miracol novo! ella a’ miei versi ed io

circondava al suo nome altere piume;

e l’un per l’altro andò volando a prova.

Questa fu quella il cui soave lume

di pianger solo e di cantar mi giova,

e i primi ardori sparge un dolce oblio.

3

Segue la medesima descrizione.

 

Su l’ampia fronte il crespo oro lucente

sparso ondeggiava, e de’ begli occhi il raggio

al terreno adducea fiorito maggio

e luglio a i cori oltre misura ardente.

Nel bianco seno Amor vezzosamente

scherzava, e non osò di fargli oltraggio;

e l’aura del parlar cortese e saggio

fra le rose spirar s’udia sovente.

Io, che forma celeste in terra scorsi,

rinchiusi i lumi e dissi: «Ahi, come è stolto

sguardo che ’n lei sia d’affissarsi ardito!».

Ma de l’altro periglio non m’accorsi:

ché mi fu per le orecchie il cor ferito,

e i detti andaro ove non giunse il volto.

4

Dimostra come l’amore acceso in lui da l’aspetto de la sua

donna fusse accresciuto dal suo canto.

 

Avean gli atti soavi e ’l vago aspetto

già rotto il gelo ond’armò sdegno il core;

e le vestigia de l’antico ardore

io conoscea dentro al cangiato petto;

e di nudrire il mal prendea diletto

con l’esca dolce d’un soave errore:

sí mi sforzava il lusinghiero Amore,

che s’avea ne’ begli occhi albergo eletto.

Quando ecco un novo canto il cor percosse,

e spirò nel suo foco, e piú cocenti

fece le fiamme placide e tranquille;

né crescer mai né sfavillar a’ venti

cosí vidi giammai faci commosse,

come l’incendio crebbe e le faville.

5

Dice d’aver veduta la sua donna su le rive de la Brenta e

descrive poeticamente i miracoli che facea la sua bellezza.

Colei che sovra ogni altra amo ed onoro

fiori coglier vid’io su questa riva;

ma non tanti la man cogliea di loro

quanti fra l’erbe il bianco piè n’apriva.

Ondeggiavano sparsi i bei crin d’oro,

ond’Amor mille e mille lacci ordiva;

e l’aura del parlar dolce ristoro

era del foco che de gli occhi usciva.

Fermò suo corso il rio, pur come vago

di fare specchio a quelle chiome bionde

di se medesmo ed a que’ dolci lumi;

e parea dire: «A la tua bella imago,

se pur non degni solo il re de’ fiumi,

rischiaro, o donna, queste placid’onde».

6

Seguita a mostrar con altra metafora come avvisando di

trovar la sua donna senza difesa fosse da lei vinto e

superato.

 

Io mi credea sotto un leggiadro velo

trovar inerme e giovenetta donna,

tenera a’ prieghi, o pur in treccia e ’n gonna,

come era allor che parvi al sol di gelo;

ma, scoperto l’ardor ch’a pena io celo

e ’l possente desio ch’in me s’indonna,

s’indurò come suole alta colonna

o scoglio o selce al piú turbato cielo.

E lei, d’un bel diaspro avvolta, io vidi

di Medusa mostrar l’aspetto e l’arme,

tal ch’i’ divenni pur gelato e roco;

e dir voleva, e non volea ritrarme,

mentre era fuori un sasso e dentro un foco:

«Spetrami, o donna, in prima, e poi m’ancidi» .

7

Descrive come ne l’età giovenile, per l’inesperienza, fosse

preso dal piacer d’una gentilissima e nobil fanciulla.

 

Giovene incauto e non avvezzo ancora

rimirando a sentir dolcezza eguale,

non temea i colpi di quel raro strale

che di sua mano Amor polisce e dora.

Né pensai che favilla in sí breve ora

alta fiamma accendesse ed immortale;

ma prender, come augel ch’impenna l’ale,

giovenetta gentil credea talora.

Però tesi tra’ fior d’erba novella

vaghe reti, sfogando i tristi lai

per lei, che se n’andò leggiera e snella;

e ’n gentil laccio i’ sol preso restai,

e mi furo i suoi guardi arme e quadrella,

e tutte fiamme gli amorosi rai.

8

Scherza intorno al nome de la sua donna.

 

Donna, sovra tutte altre a voi conviensi,

se luce e reti suona, il vostro nome:

perché m’abbaglio a lo splendor del viso

e caggio poi con gli abbagliati sensi

al dolce laccio; e da le bionde chiome

legato sono, e da la man conquiso

che basta a la vittoria inerme e nuda:

piú bella e casta ov’è men fera e cruda.

9

Mostra quanta dolcezza sia ne le pene amorose.

 

Se d’Amor queste son reti e legami,

oh com’è dolce l’amoroso impaccio!

Se questo è ’l cibo ov’io son preso al laccio,

come son dolci l’esche e dolci gli ami!

Quanta dolcezza a gl’inveschiati rami

il vischio aggiunge ed a l’ardore il ghiaccio!

Quanto è dolce il soffrir s’io penso e taccio,

e dolce il lamentar ch’altri non ami!

Quanto soavi ancor le piaghe interne;

e lacrime stillar per gli occhi rei,

e d’un colpo mortal querele eterne!

Se questa è vita, io mille al cor torrei

ferite e mille, e tante gioie averne;

se morte, sacro a morte i giorni miei.

10

Al signor Fulvio Viani.

 

Mira, Fulvio, quel sol di novo apparso

come sua deità ne mostra fuore!

Mira di quanta luce e quanto ardore

quest’aere intorno a questa terra ha sparso!

Qual dea l’inchina tu, ch’angusto e scarso

fora a’ gran merti suoi mortale onore:

io per me vo’ ch’ anzi l’ altar d’Amore

le sia in vittima il cor sacrato ed arso.

Ed or dentro la mente un tempio l’ergo,

ove sua forma il mio pensier figura

e di Lucrezia il nome incide e segna;

e in guardia eletta di sí degno albergo

sederà la mia fé candida e pura

perch’a gli altri desir rinchiuso il tegna.

11

Al signor Fulvio Viani.

 

Fulvio, qui posa il mio bel sole, allora

che l’altro fa ne l’Ocean soggiorno;

qui poscia appar quand’apre Febo il giorno,

Febo, che n’è di lei nunzio ed aurora;

e quinci prima uscire il vid’io fora,

di vermiglio splendor le membra adorno;

e se quei per ministre ha l’Ore intorno,

questi Amore e le Grazie ha seco ognora.

Or com’è che qui presso a chi vi guarda

s’offran di fior sí vaghe forme e nove,

né sian arsi da lui qual solfo od esca?

Lasso, egli dolce i fior nutre e rinfresca

con la virtú che da’ begli occhi piove,

e solo avvien che i cor distrugga ed arda!

12

Mostra che la sua donna, benché fosse vestita in abito

giovenile assai leggiadro, non merita d’esser numerata tra

le ninfe, ma è piú tosto degna di celeste onore.

 

Mentre adorna costei di fiori e d’erba

le rive e i campi, ogni tranquillo fonte

parea dir mormorando: «A questa fronte

si raddolcisce il mio cristallo e serba.

Se non disdegna pur ninfa superba

riposto seggio ove il sol poggi o smonte,

ed ogni verde selva ogni erto monte

par che l’inviti a la stagion acerba» .

Ma sembrò voce uscir tra’ folti rami:

«Donna con sí gentile e caro sdegno

non è nata fra boschi o poggi ed acque;

ma perché ’l mondo la conosca ed ami

scesa è dal cielo in terra, e dove nacque

di sua bellezza onor celeste è degno».

13

Si lamenta che la sua donna non lasci il guanto.

 

Lasciar nel ghiaccio o ne l’ardore il guanto

Amor piú non solea,

da poi che preso e ’n suo poter m’avea

nel laccio d’oro ond’io mi glorio e vanto.

Mentr’io n’andava ancor libero e scarco

il candor m’ abbagliò di bianca neve,

sí che non rimirai la rete e i nodi;

poi che fui colto e di spedito e leve

tornai grave e impedito e caddi al varco,

coperse il mio diletto e ’n feri modi

sdegnò la bella man preghiere e lodi.

Ahi, crudel mano, ahi, fera invida spoglia,

chi fia che la raccoglia,

né sdegni i baci e l’amoroso pianto?

14

Invita gli occhi a rimirar la sua donna.

 

Occhi miei lassi, mentre ch’io vi giro

nel volto in cui pietà par che c’inviti,

pregovi siate arditi

pascendo insieme il vostro e mio desiro.

Che giova esser accorti e morir poi

d’amoroso digiun, non sazi a pieno,

e fortuna lasciar ch’è sí fugace?

Questo sí puro e sí dolce sereno

potria turbarsi in un momento, e voi

veder la guerra ov’ è tranquilla pace.

Occhi, mirate, or che n’affida e piace

il lampeggiar dei bei lumi cortesi,

con mille amori accesi

mille dolcezze, senza alcun martiro.

15

In questo dialogo fra il poeta e l’Amore si dimostra come

ne gli occhi de la sua donna sia il premio de la sua servitú.

 

«Dov’è del mio servaggio il premio, Amore?».

«In que’ begli occhi al fin dolce tremanti».

«E chi v’innalza il paventoso core?».

«Io; ma con l’ali de’ pensier costanti».

«E s’ei s’infiamma in quel sereno ardore?»

«Il tempran lagrimette e dolci pianti».

«Ahi, vola ed arde e di suo stato è incerto!».

«Soffra, che nel soffrire è degno merto».

16

Descrive maravigliosamente i miracoli che fa la sua donna

con la sua bellezza, per la quale tutti i dolori si convertono

in piacere e l’altre passioni nel suo contrario.

 

Se mi doglio talor ch’in van io tento

d’alzar verso le stelle un bel desio,

penso: «Piace a madonna il dolor mio»:

però d’ogni mia doglia io son contento.

E se l’acerba morte allor pavento,

dico: «Non è, se vuole, il fin sí rio»:

tal che del suo voler son vago anch’io

e chiamo il mio destino e tardo e lento.

Non cresce il male, anzi ’l contrario avviene,

s’ella raddoppia l’amorosa piaga

e sana l’alma con sue dolci pene.

Miracolo è maggior che d’arte maga,

trasformar duolo e tema in gioia e spene

e dar salute ove piú forte impiaga.

17

Loda la bellezza de la sua donna e particolarmente quella

de la bocca.

 

Bella è la donna mia se del bel crine

l’oro al vento ondeggiar avvien ch’io miri,

bella se volger gli occhi in vaghi giri

o le rose fiorir tra neve e brine;

e bella dove poggi, ove s’inchine,

dov’orgoglio l’inaspra a’ miei desiri;

belli sono i suoi sdegni e quei martiri

che mi fan degno d’onorato fine.

Ma quella ch’apre un dolce labro e serra

porta de’ bei rubin sí dolcemente,

è beltà sovra ogn’altra altera ed alma:

porta gentil de la prigion de l’alma,

onde i messi d’Amor escon sovente

e portan dolce pace e dolce guerra.

18

Loda la gola de la sua donna.

 

Tra ’l bianco viso e ’l molle e casto petto

veggio spirar la calda e bianca neve

e dolce e vaga, onde tra spazio breve

riman lo sguardo dal piacer astretto;

e, s’egli mai trapassa ad altro obietto

là dove lungo amore ei sugge e beve,

e dove caro premio al fin si deve

ch’adempia le sue grazie e ’l mio diletto

cupidamente or quinci riede or quindi

a rimirar come il natio candore

dal candor peregrin sia fatto adorno:

«E mandino a te» dico «Arabi ed Indi

pregiate conche e dal tuo novo onore

perdan le perle con lor dolce scorno».

19

Loda il petto de la sua donna.

 

Quella candida via sparsa di stelle

che ’n ciel gli dei ne la gran reggia adduce,

men chiara assai di questa a me riluce

che guida pur l’alme di gloria ancelle.

Per questa ad altra reggia, a vie piú belle

viste il desio trapassa: Amor è duce,

e di ciò ch’al pensier al fin traluce

vuol che securo fra me sol favelle.

Gran cose il cor ne dice, e s’alcun suono

fuor se n’intende, è da’ sospir confuso;

ma non tacciono in tanto i vaghi sguardi.

E paion dirli: «Ahi! qual ventura o dono

quello che a te non è coperto e chiuso

rivela a noi, mentre n’avvampi ed ardi!».

20

Dice che il pensiero gli descrive la bellezza de la sua donna

e s’unisce con lei in guisa che gliela rende sempre presente.

 

De la vostra bellezza il mio pensiero

vago men bello stima ogn’altro obietto;

e se di mille mai finge un aspetto

per agguagliarlo a voi, non giunge al vero;

ma se l’idolo vostro ei forma intero

prende da sí bell’opra in sé diletto,

e ’n lui pur giunge forze al primo affetto

la nova maraviglia e ’l magistero.

Fermo è dunque d’amarvi; e se ben v’ama,

in se stesso ed in voi non si divide,

ma con voi ne l’amar s’unisce in guisa

che non sete da lui giammai divisa

per tempo o loco; e mentre ci spera e brama

vi mira e mirerà qual prima vide.

21

Parla con la sua donna ne la sua partita, dicendo che se la

fortuna gl’impedisce di seguitarla non può impedire il suo

pensiero, il qual la segue e la vede per tutto.

 

Donna, crudel fortuna a me ben vieta

seguirvi e’n queste sponde or mi ritiene,

ma ’l pronto mio pensier non è chi frene,

che sol riposa quanto in voi s’acqueta.

Questo vi scorge ora pensosa or lieta,

or solcar l’onde, ora segnar l’arene,

ed ora piagge ed or campagne amene

su ’l carro sí com’ei corresse a meta.

E nel materno albergo ancor vi mira,

fra soavi accoglienze e ’n bel sembiante,

partir fra le compagne i baci e’l riso.

Poi, quasi messaggier che porti avviso,

riede e ferma nel cor lo spirto errante

tal che di dolce invidia egli sospira.

22

Al signor conte Ercole Tassone, dicendo che per la

lontananza de la sua donna è mancata la sua luce ma non

il suo ardore.

 

Tasson, qui dove il Medoaco scende

a dar tributo d’acque dolci al mare,

al crud’Amor d’onde turbate e amare

da me tributo non minor si rende

e tra queste ombre, ove non luce e splende

raggio che le mie notti apra e rischiare,

cerco il mio Sol, né suo vestigio appare

se non l’ardore onde mill’alme accende:

ché scorgo appresso il foco, ovunque io guarde,

che già diffuse sua beltà fra noi,

e descritto si legge in mille carte.

Lasso! ei ben volle in sua memoria parte

di quel lasciarne ond’ uom si strugge ed arde,

ma tutti portò seco i raggi suoi.

23

Ne la lontananza de la sua donna dice di non poter avere

alcun piacer lontano da lei se non quello ch’egli sente nel

patir per lei.

 

Io non posso gioire

lunge da voi, che siete il mio desire;

ma ’l mio pensier fallace

passa monti e campagne e mari e fiumi;

e m’avvicina e sface

al dolce foco de’ be’ vostri lumi;

e ’l languir sí mi piace

ch’infinito diletto ho nel martire.

24

Ne l’istesso soggetto.

 

Già non son io contento

lunge da voi, che sete il mio tormento,

in cosí dolce modo

m’arde il pensier; ma s’egli a voi mi giunge,

io vi rimiro ed odo

allora piú vicin che son piú lunge,

ed amo ed ardo e godo

piú del mio foco se maggior il sento.

25

Ad Amore, ne l’istesso soggetto.

 

Come vivrò ne le mie pene, Amore,

sí lunge dal mio core,

se la dolce memoria non m’aita

di lei ch’è la mia vita?

Dolce memoria e spene,

imaginata vista e caro obietto,

voi siete il mio diletto,

la mia vita e ’l mio bene;

ma pur mezzo son io tra morto e vivo,

poi che del cor son privo.

26

A la sua donna, nel soggetto medesimo.

 

Se ’l mio core è con voi, come desia,

dov’è l’anima mia?

Credo sia col pensiero; e ’l pensier vago

è con la bella imago;

e l’imagine bella

de la vostra bellezza è ne la mente

viva e vera e presente

e vi spira e favella;

ma pur senza il mio core è la mia vita

dolente e sbigottita.

27

Ragiona col suo pensiero pregandolo che cessi da le sue

operazioni e che consenta che ’l sogno gli rappresenti la

sua donna.

 

Pensier, che mentre di formarmi tenti

l’amato volto e come sai l’adorni,

tutti da l’ opre lor togli e distorni

gli spirti lassi al tuo servigio intenti,

dal tuo lavoro omai cessa, e consenti

che ’l cor s’acqueti e ’l sonno a me ritorni,

prima che Febo, omai vicino, aggiorni

queste ombre oscure co’ bei raggi ardenti.

Deh! non sai tu che piú sembiante al vero

sovente ’l sogno il finge e me ’l colora,

e l’imagine ha pur voce soave?

Ma tu piú sempre rigido e severo

il figuri a la mente, ed ei talora

la ritragge al mio cor pietosa e grave.

28

Dice che essendo vinto dal dolore gli apparve in sogno la

sua donna e lo racconsolò.

 

Giacea la mia virtú vinta e smarrita

nel duol, ch’è sempre in sua ragion piú forte,

quando pietosa di sí dura sorte

venne in sogno madonna a darle aita;

e ristorò gli spirti, e ‘n me sopita

la doglia a nova speme aprí le porte;

e cosí ne l’imagine di morte

trovò l’egro mio cor salute e vita.

Ella, volgendo gli occhi in dolci giri,

parea che mi dicesse: «A che pur tanto,

o mio fedel, t’affliggi e ti consumi?

E perché non fai tregua a’ tuoi sospiri,

e’n queste amate luci asciughi il pianto?

Speri forse d’aver piú fidi lumi?».

29

Ne l’istesso soggetto.

 

Onde, per consolarne i miei dolori,

vieni, o sogno, pietoso al mio lamento?

Tal ch’al tuo dolce inganno omai consento

anto di vaghe imagini e d’errori.

Le care gemme e i preziosi odori

dove furasti, e i raggi e l’aure e ’l vento,

per farmi nel languire almen contento,

pur come un de le Grazie o de gli Amori?

Forse involasti al ciel tua luce, e ’l sole

teco m’apparve? E dal fiorito grembo

parte sentia spirar gigli e viole;

e sentia, quasi fiamma ch’al ciel vole,

la bella mano, e, quasi fresco nembo,

sospiri e soavissime parole.

30

Prega l’aura che porti le sue parole a la sua donna.

 

Aura, ch’or quinci intorno scherzi e vole

fra’l verde crin de’ mirti e de gli allori,

e destando ne’ prati vaghi fiori

con dolce furto un caro odor n’invole,

deh, se pietoso spirto in te mai suole

svegliarsi, lascia i tuoi lascivi errori,

e colà drizza l’ali ove Licori

stampa in riva del fiume erbe e viole.

E nel tuo molle sen questi sospiri

porta e queste querele alte amorose

là ’ve già prima i miei pensier n’andaro.

Potrai poi quivi a le vermiglie rose

involar di sue labbra odor piú caro

e riportarlo in cibo a i miei desiri.

31

Si lamenta con Amore che la sua donna abbia preso

marito, e la prega che non si sdegni d’esser amata e

celebrata da lui.

 

Amor, tu vedi, e non hai duolo o sdegno

ch’al giogo altrui madonna il collo inchina,

anzi ogni tua ragion da te si cede.

Altri ha pur fatto, oimè, quasi rapina

del mio dolce tesoro; or qual può degno

premio agguagliar la mia costante fede?

Qual piú sperar ne lice ampia mercede

de la tua ingiusta man, s’in un sol punto

hai le ricchezze tue diffuse e sparte?

Anzi pur chiuse in parte

ove un sol gode ogni tuo ben congiunto.

Ben folle è chi non parte

omai lunge da te, ché tu non puoi

pascer se non di furto i servi tuoi.

Ecco già dal tuo regno il piè rivolgo,

regno crudo e ’nfelice: ecco io già lasso

qui le ceneri sparte e ’l foco spento.

Ma tu mi segui e mi raggiungi, ahi lasso!,

mentre del mal sofferto in van mi dolgo,

ch’ogni corso al tuo volo è pigro e lento.

Già via piú calde in sen le fiamme l’ sento

e via piú gravi a’ piè lacci e ritegni;

e come a servo fuggitivo e ’ngrato,

qui, sotto al manco lato,

d’ardenti note il cor m’imprimi e ’l segni

del nome a forza amato;

e perch’arroge al duol ch’è in me sí forte,

formi al pensier ciò che piú noia apporte.

Ch’io scorgo in riva al Po Letizia e Pace

scherzar con Imeneo, che ’n dolce suono

chiama la turba a’ suoi diletti intesa.

Liete danze vegg’io, che per me sono

funebri pompe, ed una istessa face

ne l’altrui nozze e nel mio rogo accesa,

e, come Aurora in oriente ascesa,

donna apparir, che vergognosa in atto

i rai de’ suoi begli occhi a sé raccoglia,

e ch’ altri un bacio toglia,

pegno gentil del suo bel viso intatto,

e i primi fior ne coglia,

que’ che già cinti d’amorose spine

crebber vermigli infra le molli brine.

Tu ch’a que’ fiori, Amor, d’intorno voli

qual ape industre e ’n lor ti pasci e cibi,

e ne sei cosí vago e cosí parco,

deh, come puoi soffrir ch’altri delibi

umor sí dolce e’l caro mel t’involi?

Non hai tu da ferir saette ed arco?

Ben fosti pronto in saettarmi al varco,

allor che per vaghezza incauto venni

là ’ve spirar tra le purpuree rose

sentii l’aure amorose;

e ben piaghe da te gravi io sostenni,

ch’aperte e sanguinose

ancor dimostro a chi le stagni e chiusa;

ma trovo chi l’inaspra ognor piú cruda.

Lasso! il pensier ciò che dispiace e duole

a l’alma inferma or di ritrar fa prova

e piú s’interna in tante acerbe pene.

Ecco la bella donna, in cui sol trova

sostegno il core, or, come vite suole

che per se stessa caggia, altrui s’attiene:

qual edera negletta or la mia spene

giacer vedrassi, s’egli pur non lice

che s’appoggi a colei ch’un tronco abbraccia.

Ma tu, ne le cui braccia

cresce vite sí bella, arbor felice,

poggia pur, né ti spiaccia

ch’augel canoro intorno a’ vostri rami

l’ombra sol goda e piú non speri o brami.

Né la mia donna, perché scaldi il petto

di nuovo amore, il nodo antico sprezzi,

ché di vedermi al cor già non l’increbbe;

od essa che l’avvinse, essa lo spezzi:

però ch’omai disciorlo, in guisa è stretto,

né la man stessa che l’ordio potrebbe.

E se pur, come volle, occulto crebbe

il suo bel nome entro i miei versi accolto,

quasi in fertil terreno arbor gentile,

or seguirò mio stile,

se non disdegna esser cantato e colto

da la mia penna umile;

e d’Apollo ogni dono in me fia sparso,

s’Amor de le sue grazie a me fu scarso.

Canzon, sí l’alma è ne’ tormenti avvezza

che, se ciò si concede, ella confida

paga restar ne le miserie estreme.

Ma se di questa speme

avvien che’l debil filo alcun recida,

deh tronchi un colpo insieme,

ch’io ’l bramo e ’l chiedo, al viver mio lo stame

e l’amoroso mio duro legame.

32

Ragiona con Amore andando a ritrovare la sua donna.

 

Amor, colei che verginella amai

doman credo veder novella sposa,

simil, se non m’inganno, a colta rosa

che spieghi il seno aperto a’ caldi rai.

Ma chi la colse non vedrò giammai

ch’al cor non geli l’anima gelosa;

e s’alcun foco di pietade ascosa

il ghiaccio può temprar, tu solo il sai.

Misero! ed io là corro ove rimiri

fra le brine del volto e ’l bianco petto

scherzar la mano avversa a’ miei desiri!

Or come esser potrà ch’io viva e spiri,

se non m’accenna alcun pietoso affetto

che non fian sempre vani i miei sospiri?

33

Camminando di notte prega le stelle che guidino il suo

corso.

 

Io veggio in cielo scintillar le stelle

oltre l’usato e lampeggiar tremanti,

come ne gli occhi de’ cortesi amanti

noi rimiriam talor vive facelle.

Aman forse là suso, o pur son elle

pietose a’ nostri affanni, a’ nostri pianti?

Mentre scorgon le insidie e i passi erranti

là dove altri d’Amor goda e favelle?

Cortesi luci, se Leandro in mare

o traviato peregrin foss’io,

non mi sareste di soccorso avare:

cosí vi faccia il sol piú belle e chiare,

siate nel dubbio corso al desir mio

fide mie duci e scorte amate e care.

34

Appressandosi a la sua donna dice a’suoi pensieri ed a’suoi

affanni che si partano da lui.

 

Fuggite, egre mie cure, aspri martiri,

sotto il cui peso giacque oppresso il core,

ché per albergo or mi destina Amore

di nova speme e di piú bei desiri.

Sapete pur che, quando avvien ch’io miri

gli occhi infiammati di celeste ardore

non sostenete voi l’alto splendore

né ’l fiammeggiar di que’ cortesi giri,

quale stormo d’augei notturno e fosco

battendo l’ali innanzi al dí che torna

a rischiarar questa terrena chiostra.

E già, se a’ certi segni il ver conosco,

vicino è il sol che le mie notti aggiorna,

e veggio Amor che me l’addita e mostra.

35

Dice che quando vede la sua donna rimane cosí contento

de la sua cortesia, che si scorda tutti i tormenti i quali ha

sopportati per lei.

 

Veggio, quando tal vista Amor impetra,

sovra l’uso mortal madonna alzarsi,

tal che rinchiude le gran fiamme ond’arsi

meraviglia e per tema il cor impetra.

Tace la lingua allor e ’l piè s’arretra

e son muti i sospiri accesi e sparsi,

ma nel volto potrebbe ancor mirarsi

l’affetto impresso quasi in bianca petra.

Ben essa il legge e con soavi accenti

m’affida e, forse perché ardisca e parle,

di sua divinità parte si spoglia.

Ma sí quell’atto adempie ogni mia voglia,

ch’io non ho che cercar né che narrarle,

e per un riso oblio mille tormenti.

36

Chiede, quasi maravigliando, quel che sia la bellezza e

mostra di non saperlo ma di sentirne solo gli effetti.

 

Questa rara bellezza opra è de l’alma

che vi fa cosí bella e ’n voi traluce

qual da puro cristallo accesa luce?

È sua nobil vittoria e quasi palma?

O gloria od arte e magistero è d’alma

natura? o don celeste? o raggio e duce

ch’al vero sole, onde partí, conduce,

ed aggravar no ’l può terrena salma?

Le sembianze e i pensier, gli alti costumi

tutti paion celesti, e s’io n’avvampo

non par ch’indi mi strugga e mi distempre.

Lontano io gelo, ed ombre oscure e fumi

par ch’io rimiri: in cosí dolci tempre

de’ begli occhi me illustra il chiaro lampo!

37

Si duole d’uno impedimento e d’una interposizione che cerchi

di spaventarlo e gli minacci infelicità.

 

Non fra parole e baci invido muro

piú s’interpose o fra sospiri e pianti,

o mar turbato a’ duo infelici amanti

quando troppo l’un fece Amor sicuro;

o nube ch’a noi renda il ciel men puro

e la notturna e bianca luce ammanti,

o terra che le copra i bei sembianti,

o luna che ne faccia il sole oscuro;

o dolor d’altro intoppo, a’ suoi pensieri

rotto nel mezzo il volo, alcun sostenne

perché volar piú non presuma o speri,

quanto io di quel ch’a’ miei troncò le penne;

e benché sian di lor costanza alteri,

par che nel pianto d’affondarli accenne.

38

Dice d’aver veduto Amor negli occhi de la sua donna, il

quale gli aveva comandato che non cantasse piú le vittorie

d’altrui ma quelle di lei e la sua propria servitú.

 

Stavasi Amor quasi in suo regno assiso

nel seren di due luci ardenti ed alme,

mille famose insegne e mille palme

spiegando in un sereno e chiaro viso,

quando rivolto a me, ch’intento e fiso

mirava le sue ricche e care salme:

«Or canta» disse «come i cori e l’alme

e’l tuo medesmo ancora abbia conquiso;

né s’oda risonar l’arme di Marte

la voce tua, ma 1’alta e chiara gloria

e i divin pregi nostri e di costei».

Cosí addivien che ne l’altrui vittoria

canti mia setvitute e i lacci miei,

e tessa de gli affanni istorie in carte.

39

Loda l’erba mandatagli in dono e coltivata da la sua

donna, facendone comparazione con quella per la quale

Glauco si trasmutò.

 

Erba felice, che già in sorte avesti

di vento in vece e di temprato sole

il raggio de’ begli occhi accorti onesti

e l’aura di dolcissime parole

e sotto amico ciel lieta crescesti,

e qualor piú la terra arsa si duole

pronta a scemar il fero ardor vedesti

la bella man che l’alme accender sole.

Ben sei tu dono avventuroso e grato

ond’addolcisca il molto amaro, e sazio

il digiuno amoroso in parte i’ renda:

già, novo Glauco, in ampio mar mi spazio

d’immensa gioia, e ’n piú tranquillo stato

quasi mi par ch’immortal forma i’ prenda.

40

Essendo la terra coperta di neve come suole esser il

carnevale, vide passar la sua donna, e in passando parve

che si rasserenasse il tempo: le quai cose poeticamente

descrive.

 

1

La terra si copria d’orrido velo

e le falde di neve a mille a mille

cadeanle in grembo (onde a sé pria rapille

sott’altra forma il dio che nacque in Delo),

quand’ecco i’ scorgo in vivo foco il gelo

cangiarsi e ’n fiamme le cadenti stille,

e qual gemma ch’al lume arda e sfaville

splender le nubi e serenarsi il cielo.

Mentre in altrui sí strani effetti ancora

risguardo, in me gli provo, e ’l ghiaccio sfarsi

sento e le nubi de’ miei duri sdegni.

Allor gridai: «Deh, che ’l bel sole ond’arsi

s’appressa e vanno innanzi a lui tai segni

come va innanzi a l’altro sol l’aurora».

41

2

Come va innanzi a l’altro sol l’aurora

e da gli agi i mortali a l’opre invita,

cosí que’ segni a la penosa vita

mi richiamar da la quiete allora;

e qual nel suo venir l’alba colora

di purpureo splendor l’aria smarrita,

tal la mia faccia, ancor che scolorita

l’avesse il verno, rossa apparve fora;

e ’n quella guisa che ’l vermiglio suole

cangiarsi in rancio quando Apollo è giunto,

mutò poi vista a l’apparir del sole:

sentissi intanto il cor dolce compunto

da gli sguardi e dal suon de le parole,

che l’andaro a ferir quasi in un punto.

42

Dice a la sua donna d’esser acceso da la sua beltà ne la

maggior asprezza del verno.

 

Quel d’eterna beltà raggio lucente

che v’infiora le guance e gli occhi alluma,

in questa nubilosa e fredda bruma

scalda la mia gelata e pigra mente;

e sveglia al core un desiderio ardente

onde, qual nuovo augel che l’ale impiuma,

volar vorrebbe e, quasi leve piuma,

quinci il pensier quindi il voler ei sente.

E voleria dove le stelle e ’l sole

vedria vicine, e co’ soavi giri

fra sé l’agguaglieria de gli occhi vostri;

ma perch’ella talor comete e mostri

d’orribil foco e nembi in ciel rimiri,

pur alto intende e si confida e vole.

43

Invitato da la sua donna a tenerle lo specchio, descrive

quell’atto poeticamente.

 

A’ servigi d’Amor ministro eletto,

lucido specchio anzi ’l mio sol reggea,

e specchio intanto a le mie luci io fea

d’altro piú chiaro e piú gradito oggetto.

Ella al candido viso ed al bel petto

vaga di sua beltà gli occhi volgea,

e le dolci arme, onde di morte è rea,

d’affinar contra me prendea diletto.

Poi come terse fiammeggiar le vide

ver me girolle e dal sereno ciglio

al cor volò piú d’un pungente strale;

ma non previdi allor tanto periglio.

Or, se madonna a’ suoi ministri è tale,

quai fian le piaghe onde i rubelli ancide?

44

Tornò un’altra volta a mostrar lo specchio a la sua donna,e

descrive la sua bellezza e ’l compiacimento ch’avea di

mirarsi.

 

Chiaro cristallo a la mia donna offersi

sí ch’ella vide la sua bella imago

qual di formarla il mio pensiero è vago

e qual procuro di ritrarla in versi.

Ella da tanti pregi e sí diversi

non volse il guardo di tal vista pago,

gli occhi mirando e’l molle avorio e vago

e l’oro de’ bei crin lucidi e tersi.

E parea fra sé dir: «Ben veggio aperta

l’alta mia gloria, e di che dolci sguardi

questa rara bellezza accenda il foco!».

Cosí, ben che ’l credesse in prima un gioco,

mirando l’armi ond’io fuggii sí tardi

de le piaghe del cor si fé piú certa.

45

Dice d’aver piú caro il legame tolto a la sua donna di

quello che lega il corpo con l’anima.

 

Non ho sí caro il laccio ond’al consorte

de la vita mortal l’alma s’avvinse,

come quel ch’or me lega, e voi già strinse,

già vago e dolce or duro nodo e forte;

né quel famoso ch’al figliuol diè morte

del barbaro monile il collo cinse

lieto cosí quando il nemico estinse,

com’io di quel che v’ha le chiome attorte.

Ti cede, Amor, Natura; e non si sdegna

ch’ella ordisca fral nodo e ’l tuo non rompa

morte e con l’alma in ciel si privilegi.

E se gli altrui sepolcri illustre pompa

orna di vincitrice altera insegna,

per la servil catena il mio si pregi.

46

Offerisce ad Amore in voto una bendella di seta, la quale

egli aveva involata a la sua donna.

 

Amor, se fia giammai che dolce i’ tocchi

il terso avorio de la bianca mano,

e ’l lampeggiar del riso umile e piano

veggia da presso e ’l folgorar de gli occhi,

e notar possa come quindi scocchi

lo stral tuo dolce e mai non parta in vano,

e come al cor dal bel sembiante umano

d’amorose dolcezze un nembo fiocchi,

fia tuo questo lacciuol ch’annodo al braccio

non pur, ma vie piú stretto il cor n’involgo:

caro furto, ond’il crin madonna avvolse.

Gradisci il voto, ché piú forte laccio

da man piú dotta ordito altri non tolse;

né per che a te lo doni indi mi sciolgo.

47

Ballando con la sua donna desidera di fare amorosa

vendetta de la sua mano ch’egli teneva stretta.

 

Non è questa la mano

che tante e sí mortali

avventò nel mio cor fiammelle e strali?

Ecco che pur si trova

fra le mie man ristretta,

né forza od arte per fuggir le giova,

né tien face o saetta

che da me la difenda.

Giusto è ben ch’io ne prenda,

Amor, qualche vendetta,

e se piaghe mi diè baci le renda.

48

Non avendo ardire di parlar con la sua donna nel

ballo,prega Amore che sciolga i legami de la lingua e

raddoppi quelli del core.

 

Amor l’alma m’allaccia

di dolci aspre catene:

non mi doglio io per ciò, ma ben l’accuso

che mi leghi ed affrene

la lingua a ciò ch’io taccia,

anzi a madonna timido e confuso

e’n mia ragion deluso.

Sciogli, pietoso Amore,

la lingua, e se non vuoi

che mi stringa un sol men de’ lacci tuoi,

tanti n’aggiungi in quella vece al core.

49

Ballando di nuovo con la sua donna si lamenta che ’l ballo

abbia sí tosto fine.

 

Questa è pur quella che percote e fiede

con dolce colpo che n’ancide e piace

man ne’ furti d’Amor dotta e rapace,

e fa del nostro cor soavi prede.

Del leggiadretto guanto omai si vede

ignuda e bella, e, se non è fallace,

s’offre inerme a la mia, quasi di pace

pegno gentile e di sicura fede.

Lasso! ma tosto par ch’ella si penta

mentr’io la stringo, e si sottragge e scioglie

al fin de l’armonia ch’i passi allenta.

Deh! come altera l’odorate spoglie

riveste, e la mia par che vi consenta.

Oh fugaci diletti! oh certe doglie!

50

Nel medesimo soggetto.

 

Perché Fortuna ria spieghi le vele

ne l’Egeo tempestoso o nel Tirreno

e mi dimostri il mar di seno in seno,

non mi farà men vostro o men fedele;

né perché, voi facendo a me crudele,

sferzi il destriero e gli rallenti il freno,

e mi porti fra l’Alpe o lungo il Reno,

o ’n bosco o ’n valle mi nasconda e cele.

Anzi in donna gentil bella pietate

stimo un tormento a lato al dolce sdegno

de gli occhi vostri che di foco armate.

Luci divine, onde perir sostegno,

quand’io torno a morir non mi scacciate,

perché a la morte ed a la gloria io vegno.

51

Si lamenta de la sua donna, che, ballandosi al ballo del

torchio, con estinguerlo ponesse fine al ballo.

 

Mentre ne’ cari balli in loco adorno

si traean le notturne e placide ore,

face, che nel suo foco accese Amore,

lieto n’apriva a mezza notte il giorno:

e da candide man vibrata intorno

spargea faville di sí puro ardore

che pareva apportar gioia ed onore

a’ pochi eletti, a gli altri invidia e scorno;

quando a te data fu, man cruda e bella,

e da te presa e spenta, e ciechi e mesti

restar mill’occhi a lo sparir d’un lume.

Ahi, come allor cangiasti arte e costume:

tu, ch’accender solei l’aurea facella,

tu, ministra d’Amor, tu l’estinguesti!

52

Contro una donna attempata, la qual prendendo

importunamente commiato aveva interrotto un bel

trattenimento.

 

O nemica d’Amor, che sí ti rendi

schiva di quel ch’altrui dà pace e vita,

e dolce schiera a’ dolci giochi unita

dispregi e parti, e lui turbi ed offendi,

se de l’altrui bellezza invidia prendi

mentre i tuoi danni a rimembrar t’invita,

ché non t’ascondi omai sola e romita

e ’n umil cameretta i giorni spendi?

Ché non conviensi già tra le felici

squadre d’Amor e tra il diletto e ’l gioco

in donna antica imagine di morte.

Deh, fuggi il sole e cerca in chiuso loco,

come notturno augel, gli orrori amici;

né qui timor la tua sembianza apporte.

53

Parla col suo core e ’l consiglia a far ritorno a la sua

donna.

 

«Donde ne vieni, o cor, timido e solo,

cosí tutto ferito e senza piume?».

«Da que’ begli occhi il cui spietato lume

le penne m’infiammò ne l’alto volo».

«Torna al suo petto. Or questo ingombra il duolo,

né scacciato da lei raccor presume».

«Non posso, né volar ho per costume

senza quell’ali ond’io mi spazio a volo».

«L’ale ti rifaranno i miei desiri,

anzi pur tuoi, ché ’l tuo piacer le spiega».

«E s’avvien che non m’oda o che s’adiri?».

«Batti a le porte e chiama e piangi e prega».

«Già m’ergo e mi son aure i miei sospiri,

e morrò s’ella è sorda o s’ella il niega».

54

Assomiglia il suo dolce pensiero amoroso, che non è

mescolato con gli altri amarissimi, al favoloso Alfeo che,

passando sotto il mare per congiungersi con Aretusa, non

mescola l’aque salse con le dolci.

 

Come la ninfa sua fugace e schiva,

che si converte in fonte e pur s’asconde,

l’innamorato Alfeo per vie profonde

segue e trapassa occulto ad altra riva,

ed irrigando pallidetta oliva

co’ bei doni se ’n va di fiori e fronde,

e non mesce le salse a le dolci onde

e dal mar non sentito in sen le arriva;

cosí l’anima mia, che si disface,

cerca pur di madonna, e lode e canto

le porta in dono ed amorosa pace;

ma le dolcezze sue non turba in tanto

fra mille pene il mio pensier seguace

passando un mar di tempestoso pianto.

55

Prega Amore che non voglia percuotere il delicato petto de

la sua donna d’egual ferita, ma di dolcissima piaga

amorosa.

 

Se la saetta, Amor, ch’al lato manco

m’impiaga in guisa ch’io languisco a morte,

fosse dolce cosí com’ella è forte,

direi: «Pungi, signor, il molle fianco:

ché di pregare e di seguir m’ha stanco

mentre fugge costei per vie distorte!».

Ma temo, oimè, che per malvagia sorte

ella non pera, or ch’io son frale e manco.

Deh! goda, prego, al dilettoso male,

e tinta in soavissima dolcezza

sia la ferita e quel dorato strale.

A me quanto è di grave e di mortale;

dà mille gioie a lei, se pur disprezza

gioir l’alma gentil di piaga eguale.

56

Dice che partendosi da la sua donna non potrà vedere o

imaginar cosa ch’agguagli la dolcezza d’un suo sdegno o la

bellezza d’un suo disprezzo.

 

Se mi trasporta a forza ov’io non voglio

mia fortuna che fa cavalli e navi,

che farò da voi lunge, occhi soavi,

benché talor vi turbi ira ed orgoglio?

Vedrò cosa giammai che’l mio cordoglio

e tante pene mie faccia men gravi?

O starò solo ove s’ inondi e lavi

verde colle, ermo lido e duro scoglio?

Tu, pensier fido, e tu, sogno fallace,

fronte mi formerai tanto serena,

o’ n lieto riso sí amorosa pace,

o ninfa o dea sovra l’incolta arena,

se non val ciò ch’in altre alletta o piace

dolce un suo sdegno, un bel disprezzo a pena?

57

Appressandosi l’ora de la sua partita,prega la sua donna

che volgendo gli occhi nel cielo fermi il suo corso.

 

Tu vedi, Amor, come trapassi e vole

col dí la vita e ’l fin prescritto arrive;

né trovo scampo onde la morte io schive,

ché non s’arresta a i nostri preghi il sole.

Ma, se pietosa mi riguarda e vuole

serbar madonna in me sue glorie vive,

i begli occhi, onde al ciel l’ira prescrive,

drizzi ver lui, pregando, e le parole:

ché, del suon vago e de la vista, il corso

fermerà Febo ed allungando il giorno

mi fia scemo il dolore e spazio aggiunto.

Ma chi m’affida, oimè, ch’al fin, compunto

a l’alto paragon d’invidia e scorno

ei non rallenti a’ suoi destrieri il morso?

58

Togliendo commiato da la sua donna, sentiva dolore

simile a quello che si sente ne la morte, ma fu racconsolato

da le sue parole.

 

Sentiva io già correr di morte il gelo

di vena in vena ed arrivarmi al core,

e folta pioggia di perpetuo umore

m’involgea gli occhi in tenebroso velo,

quando vid’io con sí pietoso zelo

la mia donna cangiar volto e colore,

che non pur addolcir l’aspro dolore,

ma potea fra gli abissi aprirmi il cielo.

«Vattene» disse; «e se ’l partir t’è grave

non sia tardo il ritorno, e serba in tanto

del mio cor teco l’una e l’altra chiave».

Cosí il dolore in noi forza non have

e siam quasi felici ancor nel pianto:

o medicina del languir soave!

59

Lontano da la sua donna dice di non esser piú quel ch’egIi

era, ma l’ombra sua.

 

Lunge da voi, ben mio,

non ho vita né core e non son io.

Non sono, oimè!, non sono

quel ch’altra volta fui, ma un’ombra mesta,

un lagrimevol suono,

una voce dolente; e ciò mi resta

solo per vostro dono;

ma resta il male onde morir desio.

60

Dice di morir mille volte mentre è lontano da la sua

donna: però chiama felice chi muore una sola.

 

Lunge da voi, mio core,

mille volte m’uccide il mio dolore.

Perché la mia partita

mi tolse l’alma; e s’io ripenso in lei

mi ritoglie la vita,

e tutti sono morti i pensier miei.

Oh miseria infinita!

È quel felice ch’una volta more.

61

Continua ne l’istesso soggetto mostrando d’aver infinito

dolore per la lontananza de la sua donna: onde è

ragionevole ch’ella sia tanto pietosa quanto egli è dolente.

 

Or che lunge da me si gira il sole

e la sua lontananza a me fa verno,

lontan da voi, che del pianeta eterno

imagin sete, questo cor si dole

in tenebre vivendo oscure e sole;

e non si leva mai né si nasconde

sí mesto il sol ne l’onde,

che non sia cinto di piú fosco orrore

l’infelice mio core;

né sí perpetui rivi han gli alti monti

come i duo caldi e lacrimosi fonti.

Fonti profondi son d’amare vene

quelli ond’io porto sparso il seno e ’l volto,

è ’nfinito il dolor che dentro accolto

si sparge in caldo pianto e si mantene,

né scema una giammai di tante pene

perch’il mio core in dolorose stille

le versi a mille a mille;

ma, s’io piango e mi dolgo, ei piú m’invoglia

di lacrime e di doglia:

onde l’amor gradito esser dovrebbe,

che senza fin, come il dolor, s’accrebbe.

E s’alcun di mercede o di pietate

obligo mai vi stringe, esser non deve

circoscritto da fine angusto e breve:

perch’è ragion che sí pietosa abbiate,

com’io dolente, L’alma e no’l celiate.

Felice il mio dolor se ’l duro affetto

sí v’ammollisse il petto,

ch’a me voi ne mandaste i messaggieri

d’amor, dolci pensieri!

Ma per continua prova ei non vi spetra

ché sete quasi dura e fredda pietra.

Né pur due lagrimette ancor de’ lumi,

crudel’ vi trassi; e, s’al partir mostraste

doglia o pietà d’opre gentili o caste,

quest’è fera cagion ch’io mi consumi

e mi distempri in lagrimosi fiumi.

Forse talor, di me fra voi pensando,

dite: «Ei si strugge amando;

ma non fia ch’ei mi piaccia o tanto o quanto

per amore o per pianto;

e vana speme l’error suo lusinga

qual d’ uom che l’ombre in sogno abbracci e stringa».

Ma siate pur crudel quanto a voi piace,

ché, s’al candido petto io mai non toglio

tutto il freddo rigore e l’aspro orgoglio,

né voi torrete a me quel che mi sface

mortal dolore o quell’amor vivace;

né mi torrete mai che bella e viva

non vi formi e descriva,

per voi dolce stimando ogni mia sorte

e dolce ancor la morte,

s’avverrà mai che per voi bella e cruda

Amor quest’occhi lacrimando chiuda.

Vanne, mesta canzone,

ov’è lieta madonna; e, s’ella gira

i begli occhi senz’ira,

dille che l’amor mio sempre s’avanza,

nudrito di memoria e di speranza.

62

Scrive ad un suo amico il quale l’incitava a risguardare

molte leggiadre gentildonne che erano in una grande e

lieta festa, ch’egli non lascerà mai d’amar la sua donna né

s’invaghirà d’altra.

 

Non sarà mai ch’impressa in me non reste

l’imagin bella o d’altra il cor s’informe,

né che, là dove ogni altro affetto dorme,

novo spirto d’amor in lui si deste;

né men sarà ch’io volga gli occhi a queste

di terrene beltà caduche forme

per disviar i miei pensier da l’orme

d’una bellezza angelica e celeste.

Dunque, perché destar fiamme novelle

cerchi dal falso e torbido splendore

che ’n mille aspetti qui vago riluce?

Deh, sappi omai che spente ha sue facelle

per ciascun’altra e strali ottusi Amore,

e che sol nel mio sole è vera luce.

63

Dice d’aver fatto indarno esperienza se lo star lontano da

la sua donna poteva risanarlo de l’infermità amorosa, e

conchiude che la dimenticanza sola potrebbe esser buon

rimedio a questo male.

 

Dopo cosí spietato e lungo scempio

e tante sparse lagrime e lamenti

io non estinguo le mie fiamme ardenti,

né parte ancor de’ miei desiri adempio.

E s’intoppo non fusse ingiusto ed empio,

al fonte di pietate avrei già spenti

gl’interni ardori; e pur ne’ miei tormenti

novo Tantalo fui con fero esempio.

Perché, fuggendo, non scemò favilla

de la febbre amorosa in tanta sete,

anzi al cor ne senti’ piú calde faci.

E dritto è ben ch’io fugga onde fugaci,

e cerchi dove sparga umor di Lete

omai piú dolce fonte e piú tranquilla.

64

Si pente d’aver troppo magnificamente parlato de la sua

sofferenza mentre è stato lontano da la sua donna, e prega

Amore che, se nel tormento è merito, non cessi di

tormentarlo.

 

Era aspro e duro (e sofferir sí lunge

da que’ begli occhi e dal sereno ciglio

i’ mi diè vanto) un grave e duro esiglio

scevro d’amor, che l’alme insieme aggiunge.

Or ch’ei mi sfida e qual piú a dentro punge

saetta vibra, e quasi fero artiglio

per farmi il fianco infermo e ’l sen vermiglio

la mano adopra che risana ed unge,

pentomi de’ miei detti e folle il vanto

e ’l mio fermo sperar torna fallace;

né superbo mi fa la penna o ’l canto.

Ardimi, signor mio, con viva face

e trafiggimi il cor senza mio pianto,

perché merto è il martire ov’ei si tace.

65

Dice al suo pensiero che nel formare l’imagine de la sua

donna vorrà insieme assomigliar Prometeo e l’avvoltoio

che gli rode il cuore.

 

Per figurar madonna al senso interno

dove torrai, pensier, l’ombre e i colori?

Come dipingerai candidi fiori

o rose sparse in bianca falda il verno?

Potrai volar su nel sereno eterno

ed al piú bel di tanti almi splendori

involar pura luce e puri ardori,

la vendetta del cielo avendo a scherno?

Qual Prometeo darai l’alma e la voce

a l’idol nostro e quasi umano ingegno,

e tu insieme sarai l’augel feroce

che pasce il core e ne fa strazio indegno,

vago di quel che piú diletta e noce?

o t’assicura Amor di tanto sdegno?

66

Accenna la cagione per la quale egli, lontano da la sua

donna, non sol conserva ma accresce l’amore.

 

Amai vicino; or ardo, e le faville

porto nel seno onde s’infiamma il foco;

e non l’estingueria tempo né loco,

ben ch’io cercassi mille parti e mille:

ché nel vago pensier, luci tranquille,

piú l’accendete e a voi di ciò cal poco,

e le mie piaghe ancor prendete a gioco

con quella bianca man che sola aprille.

Né lontananza oblio m’induce al core,

né i piú colti paesi o i piú selvaggi,

ma tenace memoria e fero ardore,

perché v’adombro in lauri, in mirti e ’n faggi:

l’altre bellezze, ove m’insidia Amore,

sono imagini vostre e vostri raggi.

67

Dice che l’anima sua, vaga di luce, vola al cielo, ma poi,

allettata de l’esca de’piaceri, si torna a pascere nel volto de

la sua donna.

 

L’alma vaga di luce e di bellezza

ardite spiega al ciel l’ale amorose,

ma sí le fa l’umanità gravose

che le dechina a quel ch’in terra apprezza;

e de’ piaceri a la dolce esca avvezza,

ove in sereno volto Amor la pose

tra bianche perle e mattutine rose,

par che non trovi altra maggior dolcezza;

e fa quasi augellin ch’in alto s’erga

e poi discenda al fin ov’altri il cibi,

e quasi volontario s’imprigioni;

e fra tanti del ciel graditi doni

sí gran diletto par che in voi delibi

ch’in volo solo si pasce e solo alberga.

68

Parla con l’anima come non fosse con esso lui ma col suo

diletto, invitandola a tornare al suo corpo,il quale per sé è freddo

ed immobile, acciò che insieme possano ritornare a la sua danna .

 

«Anima errante, a quel sereno intorno

tu lieta spazii e ’n que’ soavi giri;

io non so come viva e come spiri

aspettando dolente il tuo ritorno.

Fra tanto senza sole e negro il giorno,

senza stelle la notte avvien ch’io miri;

e son piú de l’arene i miei desiri

e solo ho doglia dentro e doglia intorno.

Alma, deh, riedi, e col tuo dolce lume

riscalda questo freddo e grave incarco».

«Torniamo, e so ch’ aspetta Amore al varco».

«Dolce sarà morir di strale e d’arco,

dolce stillare il gelo in caldo fiume,

dolce a quel foco incenerir le piume!».

69

Narra poeticamente come per guiderdone de l’amore gli

fossero dati alcuni capelli avvolti ne l’oro.

 

Amando, ardendo, a la mia donna io chiesi

premio a la fede e refrigerio al foco

per cui piansi e cantai; or, fatto roco,

temo non siano i miei lamenti intesi.

Ella duo crini, ove i suoi lacci ha tesi

e dove intrica Amor quasi per gioco,

mi diè ne l’oro avvolti, e, in picciol loco

grand’incendio nascosto, io piú m’accesi.

Facea ’l riso piú bello il suo rossore

e ’l suo rossore il riso, e’n dolci modi

era stretto il mio cor d’ardenti nodi.

Io dissi: «Sotto l’auro è vivo ardore;

ma, se non posso amar s’ei non m’infiamma,

pur che viva l’amor, viva la fiamma».

70

Dice che fra gl’infiniti colpi de la nemica Fortuna a pena è

conosciuto quello d’Amore.

 

Fra mille strali, onde Fortuna impiaga

il mio cor sí che per ferita nova

spazio non resta, oimè! loco ritrova

cara d’Amor saetta e cara piaga.

Né l’alma ancor de la salute è vaga:

ché, se ben ella di sanar fa prova

ogni altro colpo, or d’inasprir le giova

quella dolce percossa, e se n’appaga.

Ma sí chiusa e secreta in sé la serba

ch’Amore stesso ancor non se n’accorge,

né fra ben mille colpi il suo discerne.

Lasso! e Fortuna, che le pene interne

non vede e sol di pianto i rivi scorge,

sua stima l’opra e se ’n va piú superba.

71

Dice d’aver veduto altre volte la sua donna assai pietosa,

ma ora per occulta cagione se gli mostra cosí crudele che

egli n’aspetta la morte.

 

Io vidi un tempo di pietoso affetto

la mia nemica ne’ sembianti ornarsi

e 1’alte fiamme, in cui di subito arsi,

nudrir con le speranze e col diletto.

Ora non so perché la fronte e ’l petto

usa di sdegno e di fierezza armarsi,

e con guardi ver me turbati e scarsi

guerra m’indice: ond’lo sol morte aspetto.

Ah, non si fidi alcun perché sereno

volto l’inviti e piano il calle mostri,

Amor, nel regno tuo spiegar le vele!

Cosí l’infido mar placido il seno

scopre a nocchieri incauti, e poi crudele

gli affonda e perde infra gli scoglie e i mostri.

72

Dimostra la sua antica costanza e la nuova incostanza de

la sua donna esser molto diverse.

 

Quanto piú ne l’amarvi io son costante

e nel mostrar ne gli occhi aperto il core,

tanto nel finger voi che ’l puro ardore

non veggiate ne gli occhi e nel sembiante.

Che farò dunque? andrò pur anco avante

e in questo mar del mio nemico Amore

la nave crederò del mio dolore

ad Euro avverso, disperato amante?

O sembrerò nocchier, che poggia ed orza

ne l’onde d’Adria alterna o nel Tirreno,

mutando il corso ov’è soverchia forza,

ma per turbato cielo e per sereno

prender con ogni vento al fin si sforza

sol un tranquillo porto, un dolce seno?

73

Ne la disperazione de la grazia de la sua donna chiama la

Morte.

 

Vissi; e la prima etate Amore e Speme

mi facean via piú bella e piú fiorita;

or la speranza manca, anzi la vita

che di lei si nudria, s’estingue insieme.

Né quel desio che si nasconde e teme

può dar conforto a la virtú smarrita;

e toccherei di morte a me gradita,

se non posso d’amor, le mete estreme.

O Morte, o posa in ogni stato umano,

secca pianta son io che fronda a’ venti

piú non dispiega e pur m’irrigo in vano.

Deh, vien, Morte soave, a’ miei lamenti,

vieni, o pietosa, e con pietosa mano

copri questi occhi e queste membra algenti.

74

Spera il poeta che, essendo la crudeltà de la sua donna

superata da la bellezza, possa alfine esser vinta da la pietà.

 

O piú crudel d’ogni altra, e pur men cruda

a gli occhi miei che bella e men guerrera,

fostú, quanto sei bella, acerba e fera

perché questi occhi lagrimando l’ chiuda!

Ma quando io veggo la man bianca ignuda

e la sembianza umilemente altera,

dico a l’anima vaga: «Ardisci e spera

ch’esser non può ch’ogni mio prego escluda.

Però se crudeltà cotanto perde

da la bellezza in lei, sarà pur anco

vinta da la pietà che v’è nascosa».

Cosí l’amor, pensando, in me rinverde,

or sazio no, ma d’aspettar già stanco

ch’omai vi faccia la beltà pietosa.

 

75

Prega Amore che, poiché la sua donna sdegna di rimirarlo,

gl’insegni alcuna arte con la quale possa involarle qualche

sguardo.

 

Poiché madonna sdegna,

fuor d’ogni suo costume,

volger in me de’ suoi begli occhi il sole,

qualch’arte, Amor, m’insegna,

ond’io del vago lume

alcun bel raggio ascosamente invole;

né giusto fia che teco ella se’n doglia:

ché, se furommi il core,

fia’l mio furto minore

quando in dolce vendetta un guardo i’ toglia.

76

Mostra di sperare che ’l tempo debba far le sue vendette

contro la sua donna, in guisa ch’ella ne la vecchiezza

debba pentirsi d’averlo sprezzato e desiderar d’essere

celebrata da lui.

 

Vedrò da gli anni in mia vendetta ancora

far di queste bellezze alte rapine,

vedrò starsi negletto e bianco il crine

che la natura e l’arte increspa e dora;

e su le rose, ond’ella il viso infiora,

spargere il verno poi nevi e pruine:

cosí il fasto e l’orgoglio avrà pur fine

di costei, ch’odia piú chi piú l’onora.

Sol penitenza allor di sua bellezza

le rimarrà, vedendo ogni alma sciolta

de gli aspri nodi suoi ch’ordia per gioco;

e, se pur tanto or mi disdegna e sprezza,

poi bramerà, ne le mie rime accolta,

rinnovellarsi qual fenice in foco.

77

Dice a la sua donna che quando ella sarà vecchia non

rimarrà d’amarla.

 

Quando avran queste luci e queste chiome

perduto l’oro e le faville ardenti,

e l’arme de’ begli occhi or sí pungenti

s’aran dal tempo rintuzzate e dome,

fresche vedrai le piaghe mie, né, come

in te le fiamme, in me gli ardori spenti;

e rinnovando gli amorosi accenti

alzerò questa voce al tuo bel nome.

E ’n guisa di pittor che il vizio emende

del tempo, mostrerò ne gli alti carmi

le tue bellezze in nulla parte offese:

fia noto allor ch’ a lo spuntar de 1’ armi

piaga non sana, e l’esca un foco apprende

che vive quando spento è chi l’accese.

78

Dice che quando egli sarà vecchio non resterà d’amare e di

celebrar la sua donna.

 

Quando vedrò nel verno il crine sparso

aver di neve e di pruina algente,

e ’l seren del mio giorno, or sí lucente,

col fior de gli anni miei fuggito e sparso,

al tuo bel nome io non sarò piú scarso

de le mie lodi o de l’affetto ardente,

né fian dal gelo intepidite o spente

quelle fiamme amorose ond’io son arso.

Ma, se rassembro augel palustre e roco,

cigno parrò lungo il tuo nobil fiume

ch’abbia l’ore di morte omai vicine;

e quasi fiamma, che vigore e lume

ne l’estremo riprenda, innanzi al fine

risplenderà piú chiaro il vivo foco.

79

Mostra la costanza ne l’amore e la fermezza nel

proponimento.

 

Benché Fortuna al desir mio rubella

ognor si mostri e dispietato Amore,

e l’altrui sdegno, donna, e ’l mio dolore

faccian turbata la mia vita e fella,

non può sorte crudele o fera stella

far men costante in adorarvi il core,

né pur men chiaro il mio soave ardore

con pianti o con sospiri onda o procella;

né torcer mai da l’immortale obietto

l’anima innamorata a cui l’affisse

il suo piacer, né la respinse orgoglio:

perché vostra sarà, com’ella visse,

sino a la morte, e per intenso affetto

volli una volta e disvoler non voglio.

80

Mostra che cosi lo sdegno come la pietà de la sua donna lo

sprona ad amare.

 

Qualor madonna i miei lamenti accoglie

e mostra di gradire il foco ond’ardo,

sprona il desio, che, piú di tigre o pardo,

veloce allor da la ragion mi scioglie;

ma se temprando l’infiammate voglie

di sdegno s’arma e vibra irato sguardo,

già far non può quel corso pigro e tardo,

ma par che piú m’affretti e piú m’invoglie:

perché l’orgoglio s’addolcisce e prende

sembianza di pietate, e ’n quel sereno

sono tranquilli ancor gli sdegni e l’ire.

Or chi fia mai ch’arresti il mio desire,

s’egualmente lo spinge e pronto il rende

con sembiante virtú lo sprone e ’l freno?

81

Assomiglia a la Fortuna la sua donna, la quale egli aveva

veduta co’ capegli sparsi su la fronte.

 

Costei, che su la fronte ha sparsa al vento

l’errante chioma d’or, Fortuna pare:

anzi è vera Fortuna, e può beare

e misero può far il piú contento.

Dispensatrice no d’oro o d’argento

o di gemme che mandi estraneo mare,

ma tesori d’Amor, cose piú care,

fura, dona e ritoglie in un momento.

Cieca non già, ma solo a’ miei martiri

par che s’infinga tale, e cieco uom rende

con due luci serene e sfavillanti.

Chiedi qual sia la rota ove gli amanti

travolve e ’l corso lor ferma e sospende?

La rota fanno or de’ begli occhi i giri.

82

Ne l’andata de la sua donna a Comacchio invita

poeticamente le ninfe ad onorarla.

 

Cercate i fonti e le secrete vene

de l’ampia terra, o ninfe, e ciò ch’asconda

di prezioso il mar ch’intorno inonda,

i salsi lidi e le minute arene;

e portatelo a lei, che tal se ’n viene

ne la voce e nel volto a l’alta sponda,

qual vi parve la dea che di feconda

spuma già nacque, o pur vaghe sirene.

Ma di coralli e d’or, di perle e d’ostri

qual don sarà che per sí schivo gusto,

paga di se medesma, ella non sdegni,

se non han pregio i vostri antichi regni

o straniero o nano, che ’n spazio angusto

ella molto piú bello in sé no ’l mostri?

83

Al Po, esortandolo poeticamente a ricuperare la sua donna

la qual era andata a Comacchio.

 

Re de gli altri superbo, altero fiume,

che qualor esci del tuo regno e vaghi

atterri ciò ch’opporsi a te presume,

e l’ime valli e l’alte piagge allaghi,

vedi gli dei marini e ’l lor costume,

gli dei, di nobil preda ognor piú vaghi,

rapir costei, ch’era tua gloria e lume,

quasi il tributo usato or non li appaghi.

Omai solleva incontra il mar tiranno

i tuoi seguaci, e, pria ch’ ad altro aspiri,

racquista il sol che qui s’annida e nacque.

Osa pur: ché mille occhi omai ti danno

mille fiumi in soccorso e i lor sospiri

gli potranno infiammar le rive e l’acque.

84

Descrive con modi poetici e maravigliosi la bellezza de la

sua donna assamigliandola al sole.

 

I freddi e muti pesci usati omai

d’arder qui sono e di parlar d’amore,

e tu, che ’l vento e l’onde acqueti, or sai

come rara bellezza accenda il core,

poi ch’in voi lieti spiega i dolci rai

il sol che fu di queste sponde onore,

il chiaro sol cui piú dovete assai

a l’altro uscito del sen vostro fuore.

Ché quegli, ingrato, a cui non ben sovviene

com’è da voi nudrito e come accolto,

v’invola il meglio e lascia ’l salso e ’l greve;

ma questi con le luci alme e serene

v’affina e purga e rende il dolce e ’l leve,

ed assai piú vi dà che non v’è tolto.

85

Segue le medesime descrizioni.

 

Sceglieva il mar perle, rubini ed oro,

che quasi care spoglie e ricche prede

di tante sue vittorie ancor possiede

e del suo proprio e suo maggior tesoro,

per donarlo a costei che Giove in toro

cangiar farebbe e per baciarle il piede;

e mentre bagna piú l’arena o cede,

parea dir mormorando in suon canoro:

«O ninfa, o dea, non de l’oscuro fondo

uscita ma del ciel, che mia fortuna

placida rendi allor che tutta imbruna,

te seguo in vece di mia vaga luna:

deh, non fuggir se pur m’avanzo e inondo,

ché lascio i doni e torno al mio profondo».

86

Prima chiede a’ lidi ed a’porti del mare che gli insegnino

ove la sua donna sia a pescare, poi mostra di veder tirar la

rete.

 

Palustri valli ed arenosi lidi,

aure serene, acque tranquille e quete,

marini armenti, e voi che fatti avete

a verno piú soave i cari nidi;

elci frondose, amici porti e fidi,

chi, tra le pescatrici accorte e liete,

dove hanno tesa con Amor la rete,

sarà ch’i passi erranti or drizzi e guidi?

Veggio la donna, anzi la vita mia,

e ’l fune avvolto a la sua bianca mano

che trar l’alme co’ pesci ancor potria,

e ’l dolce riso lampeggiar lontano,

mentre il candido piè lavar desia

e bagna il mar ceruleo lembo in vano.

87

[Alla villa di Belvedere, mentre la sua donna era a

Comacchio].

 

Non son piú Belvedere

ma Belveder già mi facea colei

che bel veder se ne portò con lei.

Or sono vista sconsolata e scura

e manca il verde a gl’infelici rami

e l’ombre a queste fronde

e come piace a la crudel ventura,

benché sfogare il mio dolore i’ brami,

è secco il fonte e l’onde,

né piango e non ho d’onde.

Chi le lagrime rende a gli occhi miei,

ché pianger sempre e lagrimar dovrei?

88

Dice che la pietà la quale egli vede ne gli occhi de la sua

donna non è vera pietà ma crudeltà, che prende quella

sembianza per ingannarlo.

 

M’apre talor madonna il suo celeste

riso fra perle e bei rubini ardenti,

e l’orecchio inchinando a’ miei lamenti

di vago affetto il ciglio adorna e veste;

ma non avvien però ch’in lei si deste

alcun breve dolor de’ miei tormenti,

anzi la cetra e i miei non rozzi accenti,

e me disprezza e le mie voglie oneste.

Né pietà vera ne’ begli occhi accoglie

ma crudeltà, ch’in tal sembianza or mostri,

perché 1’alma ingannata arda e consumi.

Specchi del cor, fallaci infidi lumi,

ben conosciamo in voi gl’inganni vostri;

ma che pro, se schifarli Amor ci toglie?

89

Chiama felice un’ape, la quale avea morso un labbro de la

sua donna mentre ch’ella dopo lungo passeggiare sedeva in

un giardino.

 

Mentre madonna s’appoggiò pensosa

dopo i suoi lieti e volontari errori

al fiorito soggiorno, i dolci umori

depredò, susurrando, ape ingegnosa;

e ne’ labri nudria l’aura amorosa

al sol de gli occhi suoi perpetui fiori,

e volando a’ dolcissimi colori

ella sugger pensò vermiglia rosa.

Ah, troppo bello error, troppo felice!

Quel ch’a l’ardente ed immortal desio

già tant’anni si nega, a lei pur lice.

Vile ape, Amor, cara mercé rapio:

che piú ti resta, s’altri il mel n’elice,

da temprar il tuo assenzio e ’l dolor mio?

90

Dice a la sua donna che mentre gli si mostrò sdegnata poté

soffrire il foco, ma ora che se gli mostra pietosa non può

sopportarlo, laonde…

 

Mentre nubi di sdegno

fra’ vostri occhi e ’l mio core

furo interposte, egli soffrí l’ardore.

Or che chiaro si gira

il sol di quei bei lumi,

forz’è che si consumi

l’anima esposta a sí gran foco ignuda.

Poiché dunque può l’ira

temprar sí ardente face

piú che pietà non face,

siatemi, prego, per pietà piú cruda.

91

Mostra d’essersi avveduto d’un nuovo amore de la sua

donna ne la pallidezza e ne’ sospiri, ma di non sapere a

punto quale egli sia.

 

Io veggio, o parmi, quando in voi m’affiso,

un desio che v’accende ed innamora

a quel vago pallor che discolora

le rose e i gigli del fiorito viso;

e dove lampeggiava un dolce riso

languidi e rochi mormorar talora

odo i fidi messaggi e l’aria e l’ora,

ch’aura appunto mi par di paradiso.

E ben io, vago di saper novella

de’ secreti del core, il ver ne spio;

ma questo solo par che si riveli:

«Quel che ci move è giovenil desio».

Pur qual bellezza invogli alma sí bella

solo ella il sa, che vuol ch’altrui si celi.

92

Dice di predir la sua fortuna nel volto de la sua donna,

come il nocchiero ne l’aspetto de le stelle.

 

Come il nocchier da gl’infiammati lampi,

dal sol nascente o da la vaga luna,

da nube che la cinga oscura e bruna

o che d’intorno a lei sanguigna avvampi,

conosce il tempo in cui si fugga e scampi

nembo o procella torbida importuna,

o si creda a l’incerta aspra fortuna

il caro legno per gli ondosi campi;

cosí nel variar del vostro ciglio

or nubilo or sereno avvien ch’io miri

or segno di salute or di periglio;

ma stabile aura non mi par che spiri:

ond’io sovente prendo altro consiglio

e raccolgo le vele a’ miei desiri.

93

Dice che disdegno e gelosia gli tolgono la vista de la sua donna

.

Disdegno e gelosia,

vostri custodi, donna, e miei nemici,

fan gli occhi miei famelici e mendici.

Ed insieme col raggio

de’ bei vostr’occhi i bei cortesi detti

pien di spirti e d’affetti

mi toglie de’ duo dardi il doppio oltraggio:

ond’io, lasso, d’intorno

a le guardate mura

erro la notte solitario e il giorno, 1

qual cacciator ch’insidi

d’errante fera i boscherecci nidi.

Ma non vuol mia ventura

ch’involi senza pena: onde divegno

preda di predator, d’arciero il segno.

94

Mostra d’essersi accorto a piú certi segni de lo amor de la

sua donna.

 

Quel vago affetto ch’io conobbi a pena

dianzi nel pallor vostro e ne’ sospiri,

or in lieto color par che si miri

e ’n voce pur di placida sirena;

ma non so, lasso, a cui sí cara e piena

di dolcezza risuoni e gioia spiri,

e per chi sono accesi i suoi desiri:

per me non già, ché gelo in ogni vena.

Né vi miro mai, donna, e non v’ascolto

che fuor l’aspetto e dentro il cor non muti

ripien di voglie timide e gelose;

e conosco ben io ch’a me rivolto

s’oscura il dolce lume e che sdegnose

son le parole e ’n loro anco i saluti.

95

[Si duole di un dono altrui gradito da la sua donna].

 

Piante, frondose piante

che tra le foglie e i fiori

nutriste i frutti in bel giardino adorno;

e tu, di Flora amante,

che ne’ felici amori

soavemente sospiravi intorno;

sole, ch’in quel soggiorno

spiegasti i dolci raggi;

fiume, che i tronchi e l’erbe

fai piú liete e superbe

girando spesso i liquidi viaggi,

odi ch’io mi querelo,

odilo, o terra o cielo!

Madonna prende i doni

d’ amante insidioso

ed a’ nemici occulti apre la via;

e gusta (or mi perdoni)

dolce veneno ascoso

nel caro cibo che fuggir dovria.

Mortal dolcezza e ria,

deh, non l’ingombri il petto;

e s’attoscar Natura

volle alma cosí pura,

fé la mia morte ne l’altrui diletto.

Natura, iniqua maga,

del mio dolor s’appaga.

E tu, crudel, ne ridi;

ma rugiade fur quelle

de la bell’alba, e pianto dolce e chiaro.

E, per ch’io piú diffidi,

le mie nemiche stelle

sul dono lagrimar, che fu sí caro.

Dono a me solo amaro

che mi strugge, pensando,

ed a me sol crudele,

che suggo assenzio e fele;

dove ti colse il mio nemico, o quando?

O don, che m’uccidesti

dove, dove nascesti?

Amor, se dentro a’ rami

volavi come augello,

piagar dovevi di mortal ferita;

or per ch’io me ’n richiami

sol dispietato e fello

ti mostri a me, c’ho sí dogliosa vita.

Qual pianta è sí gradita,

in cui vi colga i frutti?

Se d’odioso germe

son le speranze inferme

e la mia fede e i miei sospiri e i lutti,

qual sí lontana terra,

che’l mar divide o serra?

Canzone, io sono il tronco, e le mie fronde

son mille miei desiri,

e i pomi aspri martiri.

96

Dice a la sua donna che,quanto piú conosce del suo

core,tanto meno gli presta credenza.

 

Donna, quanto piú a dentro

conobbi il vostro core,

tanto a darvi credenza io son piú tardo,

né stimo quel di fore:

io dico un vago inchino, un dolce sguardo,

un dir: «Nel foco io ardo»,

un scolorir di viso,

un dolente sospiro, un lieto riso.

97

Parla con Amore, dicendo di non voler credere piú a le

parole che a’ fatti.

 

A chi creder degg’io,

se vani sono i detti

e ’l vento se ne porta le parole?

Non a le voci sole,

che scompagnate sian da veri effetti,

Amor, crederò mai;

ma tanto or temo, quanto già sperai.

Amor, se vuoi ch’io creda,

convien che ’l core altrui ne’ fatti veda.

98

Si duole che la gelosia abbia contaminata la dolcezza e la

soavità ch’egli sentiva ne l’amare.

 

Quel puro ardor che da i lucenti giri

de l’anima immortale in me discese,

sí soave alcun tempo il cor m’ accese

che nel pianto ei gioiva e ne’ sospiri.

Come minacci Amor, come s’adiri,

quali sian le vendette e quali l’offese

per prova seppi allor, né piú s’intese

che beassero altrui pene e martiri.

Or ch’empia gelosia s’usurpa il loco

ove sedeva Amor solo in disparte

e fra le dolci fiamme il ghiaccio mesce,

m’è l’incendio noioso e ’l dolor cresce

sí ch’io ne pero, ahi lasso! Or con quale arte,

se temprato è dal gel, piú m’ arde il foco?

99

Descrive in se medesimo la natura e la sollecitudine de’

gelosi.

 

Geloso amante, apro mill’occhi e giro

e mille orecchi ad ogni suono intenti,

e sol di cieco orror larve e spaventi,

quasi animal ch’adombre, odo e rimiro.

S’apre un riso costei, se ’n dolce giro

lieta rivolge i begli occhi lucenti,

se cinta di pietà gli altrui lamenti

accoglie o move un detto od un sospiro,

temo ch’altri ne goda e che m’invole

l’aura e la luce, e ben mi duol che spieghi

raggio di sua bellezza in alcun lato.

Si nieghi a me pur ch’a ciascun si nieghi:

ché, quando altrui non splenda il mio bel sole,

ne le tenebre ancor vivrò beato.

100

Nel medesimo soggetto.

 

O ne l’amor che mesci

d’amar novo sospetto,

o sollecito dubbio e fredda tema,

che pensando t’accresci

e t’avanzi nel petto

quanto la speme si dilegua e scema;

s’amo beltà suprema,

angelici costumi

e sembianti celesti

e portamenti onesti,

per ch’avvien che temendo io mi consumi?

e che mi strugga e roda,

s’altri li mira e loda?

Già difetto non sei

de la gentil mia donna,

ché nulla manca in lei se non pietate;

e temer non devrei

ch’ove onestà s’indonna

regnasse Amor fra voglie aspre e gelate;

pur la sua gran beltate

ch’altrui sí rasserena,

e lo mio picciol merto

mi fa dubbioso e ’ncerto,

tal che sei colpa mia, non sol mia pena:

sei colpa e pena mia,

o cruda Gelosia.

E me stesso n’accuso

ch’al mio martir consento

sol per troppo voler, per troppo amare;

e quel che dentro è chiuso

con cento lumi e cento

veder l’ bramo, e non sol ciò ch’ appare.

Luci serene e chiare,

soavi e cari detti,

riso benigno e lieto,

che fa nel piú secreto

albergo l’alma fra celati affetti?

Fra gli occulti pensieri

che vuol? ch’io tema o speri?

Voi, sospiri cortesi

e fidi suoi messaggi

a chi ve ’n gite, a cui portate pace?

Deh, mi fusser palesi

vostri dolci viaggi,

e quel che nel suo core asconde e tace?

Oimè, che piú le piace

valore o chiara fama,

o bella giovinezza,

o giovenil bellezza,

o piú sangue reale onora ed ama!

Ma se d’amor s’appaga,

forse del nostro è vaga.

È il mio vero ed ardente,

e per timor non gela,

né s’estingue per ira o per disdegno,

e cresce ne la mente

s’egli si copre o cela:

però, se rade volte ascoso il tegno,

ben di pietade è degno

e degni di mercede

sono i pensier miei lassi.

Cosí solo io l’amassi

come il mio vivo foco ogni altro eccede,

ché non temerei sempre

in disusate tempre.

Né solo il dolce suono

e l’accorte parole

di che seco ragiona e i bei sembianti,

ma spesso il lampo e ’l tuono

e l’aura e ’l vento e ’l sole

mi fan geloso e gli altri divi erranti.

Temo i celesti amanti;

e se ne l’aria io veggio

o nube vaga o nembo,

dico: «Or le cade in grembo

la ricca pioggia»; e col pensiero vaneggio,

che spesso ancor m’adombra

duci ed eroi ne l’ombra.

Canzon, pria mancherà fiume per verno

che nel mio dubbio core

manchi per gelo amore.

101

Rende la cagione perché piú tosto abbia mandata a donare

il ritratto de la donna che il suo medesimo.

 

Donai me stesso; e se sprezzaste il dono,

che donarvi piú caro or vi potrei?

La mia immagine no, ch’a gli occhi miei

tanto è molesta quanto lunge i’ sono.

Tal che quasi d’amarmi io vi perdono,

benché sian tutti amori i pensier miei;

né fuor ch’un bel sembiante altro saprei

donar, perché ’l gradiste; e quel vi dono.

In voi finite almen vostri desiri

né li torca vaghezza ad altro obbietto,

ch’è men bello di voi dovunque io miri.

Sol geloso mi faccia il vostro aspetto,

ch’amando il piacer vostro e i miei martiri,

amerete il mio amore e ’l mio sospetto.

102

Si duole che le sue lettere siano mostrate con suo

disprezzo, sperando dal suo sdegno altrettanto piacere

quanto gli prometteva l’amore.

 

Quella secreta carta, ove l’interno

e chiuso affetto mio, ch’adorno in rime,

in poche note e ’n puro stil s’esprime,

voi dimostrando mi prendeste a scherno.

Né solo con questi occhi omai discerno

che mal gradite il mio cantar sublime,

ma con essi vegg’io come e’ si stime

favola vile e con mio sdegno eterno.

Or quanto di voi speri, Amor se ’l vede,

mentre ei guarda e consente, e se n’infinge,

che riveliate i miei pensier segreti.

Ma par che sdegno anco sperar mi vien

quel ch’io sperava, e dolce a l’alma or finge

la vendetta via piú d’ogni mercede.

103

Dice che, s’a la sua donna sana cari i suoi martíri, de’ quali

egli per suo amore si compiace, alfine le sarà cara ancora la

sua morte.

 

Bella guerriera mia, se ’l vostro orgoglio

e la vostra bellezza in voi son pari,

né questi versi avete in pregio o cari,

ma le mie pene, io men languir non voglio;

e mi piace ’l dolor quando io mi doglio,

e dolcezza sent’io d’affanni amari,

occhi di grazia e di pietate avari,

nel farsi un molle petto un duro scoglio.

E se l’esser ingrata è ’l vostro onore,

or, se vi pare, i miei sospiri e’ pianti

non sian piú fiori omai d’occulto amore;

ma de la fede a’ miei pensier costanti

morte sia il frutto, e di passarmi il core

una candida man si glorii e vanti.

104

Si duole d’una repulsa nel ballo e pensa di vendicarsi.

 

Mal gradite mie rime, in vano spese

per onorar donna leggiadra e bella,

ch’altrui fedele, a me spietata e fella

nega la man che già m’avvinse e prese.

Aspre repulse, or fia che tante offese

sostenga e celi or questa ingiuria or quella,

né scuota il giogo ancor l’anima ancella

e non estingua le sue fiamme accese?

Dunque, se amando i’ parea già canoro,

or disdegnando sarò muto e roco,

né d’armarne oserò lo stile e i carmi?

Ché queste ancor pungenti e fervide armi

come quadrella son di lucido oro;

ma la superba or se le prende a gioco.

105

Descrive la vittoria de lo Sdegno e il suo trionfo.

 

S’arma lo Sdegno, e’n lunga schiera e folta

pensier di gloria e di virtù raccoglie

mentre ei per la ragion la spada toglie,

ch’è in lucide arme di diamante involta.

Ecco la turba già importuna e stolta

sparsa cader de le discordi voglie,

e de’ miei sensi e di nemiche spoglie

leggiadra pompa anzi ’l trionfo accolta.

Bellezza ad arte incolta, atti soavi,

finta pietà, sdegno tenace e duro

e querele e lusinghe in dolci accenti,

ed accoglienze liete e meste e gravi

de la nemica mia l’arme già furo:

or son trofei di que’ guerrieri ardenti.

106

Assomiglia la condizione de la sua donna a quella di colui

ch’arse il tempio di Diana Efesia.

 

Costei, ch’asconde un cor superbo ed empio

sotto cortese angelica figura,

m’arde di foco ingiusto e si procura

fama da’ miei lamenti e dal mio scempio;

e prender vuol da quella mano esempio

che troppo iniqua osò, troppo secura,

per farsi illustre in ogni età futura

struggere antico e glorioso tempio.

Ma non fia ver che ne’ sospiri ardenti

suoni il suo nome, e rimarrà sepolta

del suo error la memona e del suo strale:

ché gloria ella n’avrà s’i miei tormenti

faranno istoria, e fia vendetta eguale

lasciarla in un silenzio eterno avvolta.

107

Nel medesimo soggetto: mostra di sperare la vendetta nel

silenzio e ne l’oblivione.

 

Arsi gran tempo, e del mio foco indegno

esca fu sol vana bellezza e frale;

e qual palustre augello il canto e l’ale

volsi, di fango asperse, ad umil segno.

Or che può gelo d’onorato sdegno

spegner la face e quell’ardor mortale,

con altra fiamma omai s’innalza e sale

sovra le stelle il mio non pigro ingegno.

Lasso! e conosco ben che quanto io dissi

fu voce d’uom cui ne’ tormenti astringa

giudice ingiusto a traviar dal vero.

Perfida, ancor ne la tua fraude io spero,

che, dove pria giacesti, ella ti spinga

ne gli oscuri d’oblio profondi abissi.

108

Mostra d’accorgersi del suo inganno e di manifestarlo.

Non piú crespo oro o d’ambra tersa e pura

stimo le chiome che’l mio laccio ordiro,

e nel volto e nel seno altro non miro

ch’ombra de la beltà che poco dura.

Fredda la fiamma è già, sua luce oscura,

senza grazia de gli occhi il vago giro:

deh, come i miei pensier tanto invaghiro,

lasso, e chi la ragione o sforza o fura?

Fero inganno d’Amor, l’inganno ornai

tessendo in rime sí leggiadri fregi

a la crudel ch’indi piú bella apparve.

Ecco, l’ rimovo le mentite larve:

or ne le proprie tue sembianze omai

ti veggia il mondo e ti contempli e pregi!

109

Mostra di temer piú le lusinghe che la crudeltà de la sua

donna.

 

Mentre soggetto al tuo spietato regno

vissi, ove ricondurmi, Amor, contendi,

via piú de le procelle e de gl’incendi

temea pur l’ombra d’un tuo leve sdegno.

Or che ritratto ho il cor da giogo indegno

l’arme ardenti de l’ira in van riprendi

e ’n van tanti ver me folgori spendi,

né di mille tuoi colpi un fere il segno.

Vibra pur 1’ arme tue, faccia 1’estremo

d’ogni tua possa orgoglio ed onestate,

nulla curo io se tuoni o pur saetti.

Cosí mai d’amor lampo o di pietate

non veggia sí che speme il core alletti:

ché mansueta lei, non fera, io temo.

110

S i duole d’aver offeso la sua donna come di gravissima

Colpa.

 

Ah! quale angue infernale, in questo seno

serpendo, tanto in lui veneno accolse?

E chi formò le voci e chi disciolse

a la mia folle ardita lingua il freno,

sí che turbò madonna e’l bel sereno

de la sua luce in atra nebbia involse?

Quel ferro ch’Efialte al ciel rivolse

vinse il mio stile o pareggiollo almeno.

Or qual arena sí deserta o folto

bosco sarà tra l’alpi ov’io m invole

da la mia vista solitario e vago?

O come ardisco or di mirare il sole,

se le bellezze sue sprezzai nel volto

de la mia donna, quasi in propria imago?

111

Tornando sotto il giogo, di nuovo ne spera fama e

Riputazione.

 

Mentre al tuo giogo io mi sottrassi, Amore,

e fui ribello al tuo ch’è giusto regno,

m’ebbe fortuna ingiuriosa a sdegno

tronca la via di bello e d’alto onore:

tal ch’io muto consiglio, e dono il core,

sacro la verde età, sacro l’ingegno

a la saette: ah! non ti spiaccia il segno,

che non si volge al trapassar de l’ore.

Né trovar lo potrai da Battro a Tile

piú costante a’ tuoi colpi o dolci o ’nfesti;

e tu gloria n’avrai, signor gentile,

io pregio e fama e dí men foschi e mesti;

e teco muterà suo duro stile

sorte nemica a’ miei desiri onesti.

112

Dice ch’Amore è cagione de la incostanza de le sue

passioni.

 

Queste or cortesi ed amorose lodi

de la mia donna, or duri aspri lamenti,

mie voci no, ma son d’Amore accenti:

dunque incolpane Amore, o tu che l’odi,

Amor, che molti gira in vari modi

a la vita serena avversi venti,

tra gli occhi miei bramosi e i suoi lucenti

mesce brame e temenze e sdegni ed odi.

Per questi che ’l mio cor ne’ miei sospiri

sparge quasi vapori, un sol turbato

veggio ne l’aria del bel viso oscura;

e chiamo instabil lei cangiand’io stato,

e la chiamo ver me spietata e dura

ove molle e pietosa altrui rimiri.

113

Introduce la Sdegno a contender con Amore avanti la

Ragione.

 

Quel generoso mio guerriero interno,

ch’armato in guardia del mio core alberga

pur come duce di guerrieri eletti,

e lei, ch’in cima siede ove il governo

ha di nostra natura e tien la verga,

ch’al ben rivolge gli uni e gli altri affetti,

accusa quel ch’a i suoi dolci diletti

l’anima invoglia, vago e lusinghiero:

«Donna, del giusto impero

c’hai tu dal ciel, che ti creò sembiante

a la virtú che regge

i vaghi errori suoi con certa legge,

non fui contrario ancora o ribellante,

né mai trascorrer parmi

sí che non possa a tuo voler frenarmi.

Ma ben presi per te l’armi sovente

contra il desio, quando da te si scioglie

ed a’ richiami tuoi l’orecchie ha sorde,

e, qual di varie teste empio serpente,

se medesmo divide in molte voglie

rapide tutte e cupide ed ingorde,

e sovra l’alma stride e fischia e morde,

sí che dolente ella sospira e geme

e di penrne teme.

Queste sono da me percosse e dome,

e molte ne recido,

ne fiacco molte e lui non anco uccido;

ma le rinnova ei poscia e, non so come,

via piú tosto ch’augello

le piume o i tronchi rami arbor novello.

Ben il sai tu, che sovra il fosco senso

nostro riluci sí da l’alta sede

come il sol che rotando esce di Gange;

e sai come il desio piacere intenso

in quelle sparge, ond’ei l’anima fiede,

profonde piaghe e le riapre e l’ange;

e sai come si svolga e come cange

di voglia in voglia al trasformar d’un viso,

quando ivi lieto un riso

o quando la pietà vi si dimostra,

o pur quando talora

qual viola il timor ei vi colora,

o la bella vergogna ivi s’inostra;

e sai come si suole

raddolcir anco al suon de le parole.

E sai se quella che sí altera e vaga

si mostra in varie guise, e ’n varie forme

quasi nuovo e gentil mostro si mira,

per opra di natura o d’arte maga

se medesma e le voglie ancor trasforme

de l’alma nostra che per lei sospira.

Lasso! qual brina al sole o dove spira

tepido vento si discioglie il ghiaccio,

tal ancor io mi sfaccio

spesso a’ begli occhi ed a la dolce voce;

e mentre si dilegua

il mio vigor, pace io concedo o tregua

al mio nemico; e quanto è men feroce

tanto piú forte il sento,

e volontano a’ danni miei consento.

Consento che la speme, onde ristoro

per mia natura prendo e mi rinfranco

e nel dubbio m’avanzo e nel periglio,

torca da l’alto obietto a’ bei crin d’oro

o la raggiri al molle avorio e bianco

ed a quel volto candido e vermiglio;

o la rivolga al variar del ciglio,

quasi fosse di lui la spene ancella

e fatta a me ribella.

Ma non avvien che il traditor s’acqueti;

anzi del cor le porte

apre e dentro ricetta estranie scorte

e fora messi invia scaltri e secreti;

e, s’io del ver m’avveggio,

me prender tenta e te cacciar di seggio».

Cosí dic’egli, al seggio alto converso

di lei che palma pur dimostra e lauro;

e ’l dolce lusinghier cosí risponde:

«Alcun non fu de’ miei consorti avverso

per sacra fame a te di lucido auro

ch’ivi men s’empie ov’ella piú n’abonde;

né per brama d’onor ch’i tuoi confonde

ordini giusti. E s’io rara bellezza

seguii sol per vaghezza,

tu sai ch’a gli occhi desiosi apparse

donna cosí gentile

nel mio piú lieto e piú felice aprile,

che ’l giovinetto cor subito n’arse:

per questa al piacer mossi

rapidamente e dal tuo fren mi scossi.

Forse, io no ’l niego, incauto allor piagai

l’alma; e se quelle piaghe a lei fur gravi,

ella se ’l sa, tanto il languir le piace,

e per sí bella donna anzi trar guai

toglie, che medicine ha sí soavi,

che gioir d’altra, e ne’ sospir no’l tace.

Ma questo altero mio nemico audace,

che per leve cagion, quando piú scherza,

se stesso infiamma e sferza,

in quella fronte piú del ciel serena

a pena vide un segno

d’irato orgoglio e d’orgoglioso sdegno

e d’avverso desire un’ombra a pena,

che schernito si tenne,

e del dispregio sprezzator divenne.

Quanto ei superbí poscia e ’n quante guise

fu crudel sovra me, già vinto e lasso

nel corso e per repulse isbigottito,

il dica ei che mi vinse e non m’ancise;

se ’n glorii pur ch’io gloriare il lasso.

Questo io dirò, ch’ei folle, e non ardito,

incontra quel voler che teco unito

tale ognor segue chiare interne luci

qual io gli occhi per duci,

non men che sovra’l mio l’armi distrinse:

perché ’l vedea sí vago

de la beltà d’una celeste imago,

come foss’io, né lui da me distinse;

né par che ben s’avveda

che siam qua’ figli de l’antica Leda.

Non siam però gemelli: ei di celeste,

io nacqui poscia di terrena madre;

ma fu il padre l’istesso, o cosí stimo;

e ben par ch’egualmente ambo ci deste

un raggio di beltà, che di leggiadre

forme adorna e colora il terren limo.

Egli s’erge sovente, ed a quel primo

eterno mar d’ogni bellezza arriva

ond’ogni altro deriva;

io caggio, e ’n questa umanità m’immergo;

pur a voci canore

tal volta ed a soave almo splendore

d’occhi sereni mi raffino ed ergo,

per dargli senza assalto

le chiavi di quel core in cui t’essalto.

E con quel fido tuo, che d’alto lume

scorto si move, anch’io raccolgo e mando

sguardi e sospiri, miei dolci messaggi.

Per questi egli talor con vaghe piume

n’esce, e tanto s’inalza al ciel volando

che lascia a dietro i tuoi pensier piú saggi.

Altre forme piú belle ad altri raggi

di piú bel sol vagheggia; ed io felice

sarei, com’egli dice,

se tutto unito a lui seco m’alzassi;

ma la grave e mortale

mia natura mi stanca in guisa l’ale,

ch’oltre i begli occhi rado avvien ch’i’ passi.

Con lor tratta gl’inganni

il tuo fedel seguace, e no ’l condanni.

Ma s’a te non dispiace, alta regina,

che là donde in un tempo ambo partiste,

egli rapido torni e varchi il cielo,

condotto no, ma da virtú divina

rapto, di forme non intese o viste;

a me, che nacqui in terra, e’n questo velo

vago d’altra bellezza, e non te ’l celo,

perdona, ove talor troppo mi stringa

con lui che mi lusinga.

Forse ancora avverrà ch’a poco a poco

di non bramarlo impari,

e col voler mi giunga e mi rischiari

a’ rai del suo celeste e puro foco,

come nel ciel riluce

Castore unito a l’immortal Polluce».

Canzon, cosí l’un nostro affetto e l’altro

davanti a lei contende

ch’ambo li regge, e la sentenza attende.

114

Parla col suo Sdegno confortandolo che si renda ad Amare.

 

Sdegno, debil guerrier, campione audace,

tu me sotto arme rintuzzate e frali

conduci in campo, ov’è d’orati strali

armato Amore e di celeste face.

Già si spezza il tuo ferro e già si sface

qual vetro o gelo al ventilar de 1’ ali:

che fia s’attendi il foco e l’immortali

saette? ah troppo incauto, ah chiedi pace!

Grido io mercé, tendo la man che langue,

chino il ginocchio e porgo inerme il seno:

se pugna ei vuol, pugni per me pietade.

Ella palma n’acquisti o morte almeno,

ché, se stilla di pianto al sen gli cade,

fia vittona il morir, trionfo il sangue.

115

Parla con Amore e gli domanda perché sempre accresce le

sue amorose passioni.

 

Perché tormenti il tormentoso petto

e pur trafiggi il mio trafitto core?

Perché le pene con le pene, Amore,

e ’l dolor cresci col dolente affetto?

Perché giungendo vai col tuo diletto

piaghe a le piaghe ed a l’ardore ardore?

Perché raddoppi i colpi e ’l tuo furore

ch’io per morir con men vergogna aspetto?

Non esser di pietà, fanciul, sí parco

ché non ho loco da ferite nove

e ’ndegna è d’uom già vinto alta vittoria.

Te seguitiamo e siam tua preda: altrove

spendi omai le saette e tendi l’arco,

ché ’l salvar l’innocente è vera gloria.

116

Attribuisce a la tepidezza de l’amare l’imperfezione de la

poesia, ed assomiglia se medesimo a la cetra ed Amore al

musico.

 

Allor che ne’ miei spirti intepidissi

quel ch’accendete voi soave foco,

pigro divenni augel di valle e roco,

e vile e grave a me medesmo io vissi.

Nulla poscia d’amor cantai né scrissi,

e s’alcun detto i’ ne formai da gioco

n’ebbi scorno tal volta, e basso e fioco

garrir, non chiaro e nobil carme udissi.

Come cetra son io discorde, o come

lira cui dotta mano o rozza or tocchi

e dia noia o diletto in vario suono;

e dolce il canto è sol nel vostro nome,

e poetando sol di sí begli occhi

mi detta Amor quanto io di lui ragiono.

117

Mostra che la la vista de la sua donna negli animi nasce un

amore ch’a guisa di foco ci purga d’ogni indegnità.

 

Chi serrar pensa a’ pensier vili il core

apra in voi gli occhi, e i doni in mille sparsi

uniti in voi contempli, e ’n lui crearsi

sentirà nove brame e novo amore;

ma, se passar nel seno estremo ardore

sente da gli occhi di pietà sí scarsi,

non s’arretri o difenda, ove in ritrarsi

non è salute o ’n far difesa onore:

anzi, sí come già vergini sacre

nobil fiamma nudrir, aggiunga ei sempre

l’esca soave al suo vivace foco:

ché, dolcezze soffrendo amare ed acre

e quasi Alcide ardendo, a poco a poco

cangerà le sue prime umane tempre.

118

[Nel medesimo soggetta].

 

Dal piú bel velo ch’ordí mai Natura

traspare un raggio di virtude ardente,

come da nube suol candida e pura

tal volta a mezzo giorno il sol lucente;

e come questo da valle ima e scura

in miglior parte altrui scorge sovente,

cosí quello per via piana e sicura

quinci ne guida al vero almo oriente.

Dunque, Lucrezia, il bel ch’in voi riluce

chi brama alzarsi al ciel dal chiostro umano

miri ognor fisso e quel prenda in suo duce;

ma d’aquila abbia il guardo e del mondano

fango purgato, ché cotanta luce

non potrebbe soffrir occhio mal sano.

119

Invita ciascuno a contemplare la bellezza e l’armonia de la

sua donna.

 

Aprite gli occhi, o gente egra mortale,

in questa saggia e bella alma celeste,

che di sí pura umanità si veste

a gli angelici spirti in vista eguale.

Vedete come a Dio s’inalza e l’ale

spiega verso le stelle ardite e preste,

come il sentier vi segna e fuor di queste

valli di pianto al ciel s’inalza e sale.

Udite il canto suo ch’altro pur suona

che voce di sirena e’l mortal sonno

sgombra de l’alme pigre e i pensier bassi.

Udite come d’ alto a voi ragiona

seguite me, ch’errar meco non ponno,

peregrini del mondo, i vostri passi.

120

Parlando con Amore dice che l’amor onesto non dee esser

celato, ma solamente il lascivo.

 

Uom di non pure fiamme acceso il core,

che lor ministra esca terrena immonda,

chiuda il suo foco in parte ima e profonda

e non risplenda il torbido splendore,

ma chi infiammato di celeste ardore

purga il pensier in viva face e ’n onda,

non è ragion che le faville asconda

senza parlar, né tu ’l consenti, Amore.

Ché s’altri, tua mercé, s’affina e terge,

vuoi ch’il mondo ’l conosca ed indi impare

quanto in virtú di que’ begli occhi or puoi;

e s’alcun pur il cela, insieme i tuoi

piú degni fatti in cieco oblio sommerge

e de l’alte tue glorie invido appare.

121

Si gloria d’amore e di fede segreta.

 

Io non cedo in amar, donna gentile,

a chi mostra di fuor l’interno affetto,

perché ’l mio si nasconda in mezzo ’l petto,

né co’ fior s’apra del mio novo aprile.

Co’ vaghi sguardi e col sembiante umile,

co’ detti sparsi in variando aspetto,

altri si veggia al vostro amor soggetto

e co’ sospiri e con leggiadro stile;

e quando gela il cielo e quando infiamma,

e quando parte il sole e quando riede

vi segua, come il can selvaggia damma:

Ch’io se nel cor vi cerco altri no ’l vede;

e sol mi vanto di nascosa fiamma

e sol mi glorio di secreta fede.

122

Donna, sete ben degna

che di mugghiar per voi con bianco pelo

non sdegni fra gli armenti il re del cielo;

e sete degna ancora

che la sua bella sposa

sia per voi sí gelosa,

come per lei che ’l grand’Egitto adora.

Cosí potessi anch’io

in voi tant’occhi aprire

quanti Argo aperse in Io,

per appagar mirando il mio desire:

però che i miei due soli

non veggon tutti i rai de’ vostri soli.

123

Scrivendo al signor Flaminio Delfino scopre la tiepidezza

del suo amore, ma soggiunge che per esser diminuito

l’ardore non era diminuita la gratitudine.

 

Flaminio, quel mio vago ardente affetto

che spesso ad altro suon ch’a quel di squille

destar soleami e mille volte e mille

mi bagnò il seno e mi cangiò l’aspetto,

non m’invaghisce piú di van diletto,

né piú raccende in me fiamme e faville,

né turba il sonno, né d’amare stille

mi sparge il viso impallidito e ’l petto.

Pur di nobile donna in me conservo

onorata memoria, e le mie pene

libro e le grazie sue con giusta lance.

Ma, se gradí Lucrezia il cor già servo,

libero l’ami ancor quanto conviene,

né sprezzi le mie dolci antiche ciance.

124

[Nel medesimo soggetto].

 

Quel ch’io nudrii per voi nel molle petto,

non solo fu desio, ma fero ardore

ed insolito foco e gran furore

che turbò l’alma e mi vi fé soggetto;

e ciascun mio sospiro ed ogni detto

formò chi resse imperioso il core,

e tutti i passi miei scorgeva Amore

che mi fea vaneggiar per alto obietto;

né v’avea colpa il vostro almo sembiante,

né de’ begli occhi lo splendor sereno,

ma solo il mio tiranno e ’l mio pensiero.

Or voi men aspro ma piú fermo impero

avrete in me, ché quanto avvampo io meno

tanto in servirvi sarò piú costante.

125

Prega la sua donna che non le spiaccia ch’egli canti e

pianga per lei.

 

Al bel de’ bei vostri occhi, ond’arde Amore

e Febo splende, e l’uno e l’altro spira

Spirto che l’alme al ciel rapisce e tira,

era intento il mio guardo e fiso ’l core:

indi attendeva in me sol quel furore

ond’altri poetando a gloria aspira,

ma doppio venne e’l cor sí ne delira

che stima senno il forsennato errore.

Lasso, ben d’eloquenza in me feconda

vena s’aprí, ma sorse anco di pianto

fonte, che’l dolce mescolò d’amaro.

Or, se piú questa in me che quella abbonda,

d’essere insieme a voi non sia discaro

onorata di lagrime e di canto.

126

Loda la bellezza di tre sorelle, in ciascuna de le quali

riconosce l’imagine de la piú bella e vagheggiandole tutte

assomiglia se stesso a l’idolatra.

 

Tre gran donne vid’io ch’in esser belle

mostran disparità, ma somigliante:

sí che ne gli atti e ’n ogni lor sembiante

scrive Natura: «Noi siam tre sorelle».

Ben ciascuna io lodai, pur l’ una d’elle

mi piacque sí ch’io ne divenni amante

ed ancor fia ch’io ne sospiri e cante

e ’l mio foco e ’l suo nome alzi a le stelle.

Lei sol vagheggio, e se pur l’altre io miro

vo cercando in altrui quel c’ha di vago,

e ne gl’idoli suoi vien ch’io l’adore;

ma cotanto somiglia al ver l’imago,

ch’erro, e dolc’è l’error; pur ne sospiro

come d’ingiusta idolatria d’Amore.

127

Assomiglia a le tre Grazie tre donne le quali egli aveva

vedute baciarsi insieme.

 

Le donne illustri che’l mio duol tempraro

pur con la vista di soavi baci,

certo fur quelle tre per cui tu piaci,

madre d’Amore, e tempri il pianto amaro.

Fra lor scherzava il tuo fanciul piú caro

vibrando strali ed amorose faci,

e ’l Gioco e ’l Riso e gli altri lor seguaci

avea d’intorno e sol l’inganno a paro.

Punto il cor da tre piaghe, or sol per l’una

gode languir, che fé la punta d’oro:

l’altre non sdegna, ma non tanto apprezza.

E pur che l’una lieta o due di loro

mostrino il volto a me pien di bellezza,

l’asconda l’altra e sia grazia o fortuna.

128

Paragona la sua infelicità con la morte d’un papagallo che

era stato caro a la sua donna.

 

Quel prigioniero augel, che dolci e scorte

note apprendea dal tuo soave canto,

morendo in sen ti giacque, e dal tuo pianto

bello onore ebbe poi: felice morte!

Io, cigno in mia prigion (né scorno apporte

s’ardito è pur ne la mia lingua il vanto),

quel che mi detta Amore imparo e canto,

ma con diversa e piú dogliosa sorte.

Muoio sovente, e ’l modo è via piú fero:

perché al martir rinasco, e ’n sí bel grembo

non però trovo mai tomba o feretro;

e i lumi ch’irrigar con largo nembo

un che passò da gl’Indi a noi straniero,

scarsi mi son, né stilla io piú n’impetro.

129

Assomiglia la sua donna a diverse meraviglie.

 

Qual piú rara e gentile

opra è de la natura o meraviglia,

quella piú mi somiglia

la donna mia ne’ modi e ne’ sembianti.

Dove fra dolci canti

corre Meandro o pur Caistro inonda

la torta obliqua sponda,

un bianco augel parer fa roco e vile

nel piú canoro aprile

ogni altro che diletti a meraviglia;

ma questa mia, che ’l bel candore eccede

de’ cigni, or che se ’n riede

la primavera candida e vermiglia,

l’aria addolcisce co’ soavi accenti

e queta i venti – col suo vago stile.

Un animal terreno,

ch’è bianco sí che vince ogni bianchezza

ed ogn’altra bellezza,

morir piú tosto che bruttarsi elegge.

Però come si legge,

è preso, e, per vestirne i duci illustri,

le sue tane palustri

d’atro limo son cinte; e morto almeno

pregio ha di seno in seno,

e per donna leggiadra ancor s’apprezza:

cosí la fera mia, perché s’adorni,

la vergogna e gli scorni

piú che la morte è di fuggire avvezza;

né macchia il crudo arcier le care spoglie

mentre raccoglie – e sparge il suo veleno.

In Grecia un fonte instilla,

se labbra asciutte bagna il freddo umore,

profondo oblio nel core;

l’altra bevuta fa contrari effetti,

e’n duo vari soggetti

sí mirabil virtú dimostra il cielo:

cosí questa, onde gelo,

fonte d’ogni piacer chiara e tranquilla

con una breve stilla

tor la memoria può d’ogni dolore

e render poi d’ogni passata gioia,

per temprar quella noia

onde perturbata le sue paci Amore.

Oh, vivo fonte, anzi pur fonti vivi

con mille rivi – ond’ei via piú sfavilla!

Se non è vana in tutto

l’antica fama che pur dura e suona,

tra que’ che fan corona

nasce un bel fior che sembra un lucid’oro

e vince ogni tesoro,

perché gloria ei produce e chiaro nome

a chi n’orna le chiome

né mai di sponda o di terreno asciutto

nacque sí nobil frutto.

Ed un fior di bellezza in queste rive

s’odora, e di mostrar ei nulla è scarso

l’oro disciolto e sparso

ch’erra soavemente a l’aure estive;

ma di sua gloria coronato a l’ombra

cosí m’adombra – che m’è dolce il tutto.

Ne l’arabico mare

è con un altro fior, come di rosa,

pianta maravigliosa,

che lui comprime anzi che nasca il sole;

poi dispiegarlo suole

quando egli vibra in oriente i raggi

per sí lunghi viaggi;

e di nuovo il raccoglie, allor che pare

cader ne l’onde amare.

Tal questa donna, in cui beltà germoglia

e leggiadna fiorisce, al sol nascente

nel lucido oriente

par ch’i suoi biondi crini apra e discioglia;

poi ne l’occaso astringe aurei capelli

piú di lui belli, – e sol velata appare.

Una pietra de’ Persi

co’ raggi d’oro al sol bianca nsplende

e quinci il nome prende,

e del bel lume del sovran pianeta

rassembra adorna e lieta:

cosí la pietra mia nel dí riluce,

e la serena luce

e ’l dolce fiammeggiar i’ non soffersi

quando gli occhi v’apersi.

Ma segue un’altra poi de la sorella

il corso vago e di sue belle forme

par che tutta s’informe

e di sue corna, e quindi ancor s’appella:

tal lei veggio indurarsi ascosa in parte,

se torna o parte – fa sentier diversi.

Canzon, ch’io non divegna

fra tante meraviglie un muto sasso

solo è cagione Amor, che grazia impetra

da la mia nobil pietra;

e spero andarne cosí passo passo,

e pur quasi d’un marmo esce la voce

che manco nuoce – ov’è chi men disdegna.

INDICE

Rime d’amore

1 Vere fur queste gioie e questi ardori

Libro I. Rime per Lucrezia Bendidio. 1561-1562.

1585

2 Era de l’età mia nel lieto aprile,

3 Su l’ampia fronte il crespo oro lucente

4 Avean gli atti soavi e ’l vago aspetto

5 Colei che sovra ogni altra amo ed onoro

6 Io mi credea sotto un leggiadro velo

7 Giovene incauto e non avvezzo ancora

8 Donna, sovra tutte altre a voi conviensi

9 Se d’Amor queste son reti e legami

10 Mira, Fulvio, quel sol di novo apparso

11 Fulvio, qui posa il mio bel sole, allora

12 Mentre adorna costei di fiori e d’erba

13 Lasciar nel ghiaccio o ne l’ardore il guanto

14 Occhi miei lassi, mentre ch’io vi giro

15 «Dov’è del mio servaggio il premio, Amore?»

16 Se mi doglio talor ch’in van io tento

17 Bella è la donna mia se del bel crine

18 Tra ’l bianco viso e ’l molle e casto petto

19 Quella candida via sparsa di stelle

20 De la vostra bellezza il mio pensiero

21 Donna, crudel fortuna a me ben vieta

22 Tasson, qui dove il Medoaco scende

23 Io non posso gioire

24 Già non son io contento

25 Come vivrò ne le mie pene, Amore

26 Se ’l mio core è con voi, come desia

27 Pensier, che mentre di formarmi tenti

28 Giacea la mia virtú vinta e smarrita

29 Onde, per consolarne i miei dolori

30 Aura, ch’or quinci intorno scherzi e vole

31 Amor, tu vedi, e non hai duolo o sdegno

32 Amor, colei che verginella amai

33 Io veggio in cielo scintillar le stelle

34 Fuggite, egre mie cure, aspri martiri

35 Veggio, quando tal vista Amor impetra

36 Questa rara bellezza opra è de l’alma

37 Non fra parole e baci invido muro

38 Stavasi Amor quasi in suo regno assiso

39 Erba felice, che già in sorte avesti

40 La terra si copria d’orrido velo

41 Come va innanzi a l’altro sol l’aurora

42 Quel d’eterna beltà raggio lucente

43 A’ servigi d’Amor ministro eletto

44 Chiaro cristallo a la mia donna offersi

45 Non ho sí caro il laccio ond’al consorte

46 Amor, se fia giammai che dolce i’ tocchi

47 Non è questa la mano

48 Amor l’alma m’allaccia

49 Questa è pur quella che percote e fiede

50 Perché Fortuna ria spieghi le vele

51 Mentre ne’ cari balli in loco adorno

52 O nemica d’Amor, che sí ti rendi

53 «Donde ne vieni, o cor, timido e solo

54 Come la ninfa sua fugace e schiva

55 Se la saetta, Amor, ch’al lato manco

56 Se mi trasporta a forza ov’io non voglio

57 Tu vedi, Amor, come trapassi e vole

58 Sentiva io già correr di morte il gelo

59 Lunge da voi, ben mio

60 Lunge da voi, mio core

61 Or che lunge da me si gira il sole

62 Non sarà mai ch’impressa in me non reste

63 Dopo cosí spietato e lungo scempio

64 Era aspro e duro (e sofferir sí lunge

65 Per figurar madonna al senso interno

66 Amai vicino; or ardo, e le faville

67 L’alma vaga di luce e di bellezza

68 «Anima errante, a quel sereno intorno

69 Amando, ardendo, a la mia donna io chiesi

70 Fra mille strali, onde Fortuna impiaga

71 Io vidi un tempo di pietoso affetto

72 Quanto piú ne l’amarvi io son costante

73 Vissi; e la prima etate Amore e Speme

74 O piú crudel d’ogni altra, e pur men cruda

75 Poiché madonna sdegna

76 Vedrò da gli anni in mia vendetta ancora

77 Quando avran queste luci e queste chiome

78 Quando vedrò nel verno il crine sparso

79 Benché Fortuna al desir mio rubella

80 Qualor madonna i miei lamenti accoglie

81 Costei, che su la fronte ha sparsa al vento

82 Cercate i fonti e le secrete vene

83 Re de gli altri superbo, altero fiume

84 I freddi e muti pesci usati omai

85 Sceglieva il mar perle, rubini ed oro

86 Palustri valli ed arenosi lidi

87 Non son piú Belvedere

88 M’apre talor madonna il suo celeste

89 Mentre madonna s’appoggiò pensosa

90 Mentre nubi di sdegno

91 Io veggio, o parmi, quando in voi m’affiso

92 Come il nocchier da gl’infiammati lampi

93 Disdegno e gelosia

94 Quel vago affetto ch’io conobbi a pena

95 Piante, frondose piante

96 Donna, quanto piú a dentro

97 A chi creder degg’io

98 Quel puro ardor che da i lucenti giri

99 Geloso amante, apro mill’occhi e giro

100 O ne l’amor che mesci

101 Donai me stesso; e se sprezzaste il dono

102 Quella secreta carta, ove l’interno

103 Bella guerriera mia, se ’l vostro orgoglio

104 Mal gradite mie rime, in vano spese

105 S’arma lo Sdegno, e’n lunga schiera e folta

106 Costei, ch’asconde un cor superbo ed empio

107 Arsi gran tempo, e del mio foco indegno

108 Non piú crespo oro o d’ambra tersa e pura

109 Mentre soggetto al tuo spietato regno

110 Ah! quale angue infernale, in questo seno

111 Mentre al tuo giogo io mi sottrassi, Amore

112 Queste or cortesi ed amorose lodi

113 Quel generoso mio guerriero interno

114 Sdegno, debil guerrier, campione audace

115 Perché tormenti il tormentoso petto

116 Allor che ne’ miei spirti intepidissi

117 Chi serrar pensa a’ pensier vili il core

118 Dal piú bel velo ch’ordí mai Natura

119 Aprite gli occhi, o gente egra mortale

120 Uom di non pure fiamme acceso il core

121 Io non cedo in amar, donna gentile

122 Donna, sete ben degna

123 Flaminio, quel mio vago ardente affetto

124 Quel ch’io nudrii per voi nel molle petto

125 Al bel de’ bei vostri occhi, ond’arde Amore

126 Tre gran donne vid’io ch’in esser belle

127 Le donne illustri che’l mio duol tempraro

128 Quel prigioniero augel, che dolci e scorte

129 Qual piú rara e gentile

Edizione di riferimento:

Le rime, a cura di Bruno Basile,

Salerno, Roma 1994

Sito: http://www.inpoesia.org

Testi pubblicati per studio e ricerca – Uso non commerciale

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