Francesco Scarabicchi
L’ora felice
Donzelli (“Poesia”),
Roma 2010.
di Antonio De Lisa
I testi raccolti in L’ora felice di Francesco Scarabicchi (Ancona 1951) sono stati composti dal 2003 al 2009. Alcuni di essi sono stati presentati anteriormente in diverse raccolte. E’ un preciso itinerario che viene tracciato, ma di una compattezza tale che è difficile discernere il prima o il poi.
La controprova la si può fare cercando di cogliere le variazioni all’interno della partitura, sulla base della divisione in sezioni. Non si colgono differenze rilevanti, ma scarti, brevi sussulti, ricomposizioni. L’ispirazione di Scarabicchi si svolge tutta o quasi intorno agli stilemi della lirica d’amore, coltivata con appassionata competenza. Della lirica d’amore ha tutto, il tono malinconico, in cui il passato vive nel presente e lo condiziona fino a renderlo un’allegoria stessa del passato, la coerentissima scansione breve dei testi, l’uso virtuosistico dell’endecasillabo e del settenario (o del doppio settenario). Già Giancarlo Alfano, antologizzando dei passi di Scarabicchi in Parola plurale, del 2005, aveva colto la caratteristica della brevitas come precipua: “Chi legge le raccolte di Scarabicchi si accorge che la sua poesia predilige le forme piccole e minime”.
Gli esempi incalzano fin dall’esordio: “Tienimi finché non sarà mattino, / luce che filtra appena, viso che si riposa. / Sono l’ombra discreta che t’assiste, / la presenza leggera che ti guarda, / il nome che si scioglie al primo sole”. L’io lirico è scandito da questa presenza-assenza, che aleggia ma come da lontano: “Chissà dov’ero prima di essere qui, / chissà chi ero prima di essere te”; è un “ospite muto che si fa da parte”; il suo è “un crocevia di perdite e confini”; è una presenza che svanisce “dove il giorno giunge quieto”.
In questa presenza-assenza si gioca la particolare cifra stilistica del poeta marchigiano, l’unione di astratto e di concreto (“gli occhiali che per me guardano il mondo”, “ogni tenero nulla che dissolve”) fino a esiti del tipo: “Passa di qua la nostra vita, / all’insaputa buia del lungomare, / nell’onda di ogni brivido, nel sangue / di un gesto tuo che sceglie di fermarsi / dove il mio sguardo arreso ti pronuncia”. E’ come un’istantanea in cui un attimo evoca tutto il passato. E’ stato Pier Vincenzo Mengaldo a notare che nella poesia di Scarabicchi vi è “uno schiacciamento del presente da parte del passato”, tale che “l’io presente appare come un ospite”.
Il senso profondo dei testi è affidato spesso a una particolare cadenza metaforica che ricorre in tutta la raccolta, quella dell’estinguersi, dello sciogliersi, del consumarsi; “quest’ombra che si ostina nella stanza, / svanirà come neve al sole”; “vita mia che consegni vetro e fiamma / al lume che vacilla ad ogni vento”; “il destino di un piatto che s’infrange”: “nessun’ombra si bagna, mai nessuna… scompare nell’incanto del silenzio” fino alla poesia contrassegnata da un punto interrogativo e che si compone di un solo verso: “Arde vicino, brucia, poi si spegne”.
La sezione “La luna nel rio”, aperta da un “Antefatto di Giacomo”, una quartina scritta dal figlio del poeta all’epoca dei suoi dieci anni, è più chiaramente dedicata a quest’ultimo. Si parla di coniglietti bianchi, pesciolini rossi, ninne nanne. La campitura in questo caso è più acquerellata, a colori pastello, ma non meno stilisticamente coerente. Altri intervalli sezionali sono dedicati a traduzioni di sonetti di Shakespeare.
La raccolta si apre e si chiude con due testi in prosa che scandiscono le vicende narrate come un sipario. Il primo circoscrive tempi e luoghi: “Agosto è questo diario dove giungono, discrete, le parole come gli uccelli d’alba silenziosi quando Toscana è l’orma del viaggio che finisce”. Il secondo brano in prosa si intitola “Il mese” ed è un chiaro explicit: “Poco a poco la perdi la voce lirica che ti lascia come chi s’alza nel buio di un cinema e va via”. Lo stesso poeta iscrive se stesso nella dimensione di una “voce lirica” di cui abbiamo cercato di delineare le caratteristiche. Una voce lirica basata su un monolinguismo senza scarti, un linguaggio medio i cui sussulti sono solo metaforici, le cui sorprese consistono solo negli accostamenti e nelle mescidazioni di astratto e concreto, echi del passato e rifrangenze nel presente.
Antonio De Lisa
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