Antonio De Lisa – Recensione: Milo De Angelis, “Quell’andarsene nel buio dei cortili”

Milo De Angelis

Quell’andarsene nel buio dei cortili

Mondadori (Lo Specchio), Milano 2010.

di Antonio De Lisa

L’ultima raccolta poetica di Milo De Angelis, Quell’andarsene nel buio dei cortili, è divisa in cinque sezioni: “Alfabeto del momento” (13 testi), “Finale d’assedio” (11), “Un’oscura sete” (9), “Sei perduto” (9), “Canzoncine” (15). Cinquantasette componimenti. La raccolta fa seguito all’intenso Tema dell’addio, del 2005. E con quello esibisce somiglianze ma anche molte differenze.

La prima cosa da notare, come è sempre possibile nei testi poetici di De Angelis, è l’accorta strategia delle parole ricorrenti, che costituiscono la trama dei simboli dell’autore, ma anche una guida per il lettore attento. La prima parola significativa è “notte” (“A volte, sull’orlo della notte, si rimane sospesi”). Già il primo testo detta il segnale. Segue con: “la mia notte nella tua”, “Ecco l’acrobata della notte, il corpo”, tutti versi presenti nella prima sezione. Anche nella seconda sezione troviamo un “La notte esce dalle mani”. La ritroviamo nella quarta sezione: “… vedi questa / notte dei citofoni muti”. E nell’ultima: “nel buio senza notte”.

Semanticamente correlato alla notte è la parola “buio”. Compare subito, nella seconda poesia: “E il mondo / sembra un’eco della frase / che non trovano più, caduti nel buio”. E ancora: “Era buio. Il centro di agosto era buio”. In questo testo compare tre volte. La notte è poi variata nella “sera”: “potete vederli, di sera, verso le tangenziali”, “Chi parla nella sera?”.

Organizzata la dimensione temporale, troviamo poi quella spaziale. La parola più importante in questo contesto è “stanza”: “Ma anche tu / sentirai nella stanza sigillata”, “E’ qui, in un angolo della stanza, scocca”, “alla radice / di una stanza e di una donna”. In quest’ultimo verso compare anche la deuteragonista, che spesso è attesa in quella stanza, la donna, appunto. E ancora: “escono da quella stanza”, “e quella stanza era un suono”, “esule nella sua stanza” e così via. Ma non meno importante è un “portone”, col suo “citofono”: “Fermalo. Il portone sta fuggendo”, “Il citofono è acceso. Il gesto si aggrava”, “Questo citofono brilla”, “Il citofono chiede ancora / la tua voce”, “Vedi questa / notte dei citofoni muti”.

Queste parole-segnali evocano e danno concretezza a una storia intimista e dolente, tutta giocata sull’assenza. Ma offrono dei punti di riferimento spazio-temporali in un linguaggio poetico che è volentieri metaforico, analogico, allusivo. Nei testi sono raccontate delle micro-storie, ma di scorcio e spesso non si riesce a capire ciò di cui si parla se non a una seconda o terza lettura. L’autore vela, nasconde, come in questo verso: “Vicina all’anima è la linea verticale”. Questo insistito lirismo metaforico è però tramato al suo interno da precise situazioni esistenziali.

Se proviamo ad osservare la dinamica delle ricorrenze foniche, possiamo costatare il particolare accorgimento che ha sempre caratterizzato, con più o meno evidenza, la poesia di De Angelis. Prendiamo ad esempio questo testo:

Non rispondono all’appello, sono
dispersi ai bordi della terra, hanno
il segreto della linea che trema, sono usciti
dalle vene dell’essere amato e ora
potete vederli, di sera, verso le tangenziali
chiedere silenzio con un dito sulle labbra.

I primi quattro versi sono tutti in enjambement (“sono”, “hanno”, “sono usciti”, “e ora”) con il verso chiaramente ripartito in due emistichi, a due o quattro sillabe il breve emistichio finale dopo la pausa (le virgole) o la congiunzione. Al quinto verso troviamo una tripartizione, tre emistichi (“potete vederli – di sera, – verso le tangenziali”), e l’ultimo verso scorre senza cesure.

E’ uno stilema tipico di De Angelis, il ritmo interno dei suoi versi poetici, la musica della sua metrica personale. Non ci sono rime in fine di verso, le ricorrenze foniche sono tutte all’interno, tra gli emistichi iniziali dei versi secondo, terzo e quinto e in assonanza (terra, trema, sera) e connotano semanticamente la tonalità del testo, suggerendo al lettore un’ermeneutica secondaria, interiore, sotterranea. Quando sono presenti le rime, sono rigorosamente all’interno dei versi (“…sono brandelli / di un’estate. La vecchia / … / con le ginocchia macchiate di catrame”).

Un particolare stilema sintattico che mi sembra utile porre in evidenza è il non infrequente ricorso alle interrogative: “Cosa attende da me? Dove batte / il cuore dei perduti?”; “Chi parla nella sera? Chi preme / ancora questo citofono? / Cenere dei camion, in quale labbra vuoi posarti?”; “Cosa hai chiesto?”; “Tu dov’eri? Ti aspettavo / … / Dov’eri? Io ero lì, ero”.

Dal quadro che abbiamo sommariamente delineato sembrano scaturire delle linee di tendenza. Grande accortezza a organizzare storie di vita con un linguaggio poetico “alto”, maestria nella tessitura poetica (le parole-segnale, le ricorrenze foniche), una volontà di celare e rendere manifesti piccoli segnali di lettura, ma anche talora vertiginose astrazioni liriche o liricizzanti. Mi verrebbe una definizione da usare, che provo a scrivere, ma che forse è un tantino esagerata. E’ noto che De Angelis è fautore da sempre di quella che è stata definita “parola innamorata”, ma negli anni ha declinato questa espressione nei modi più vari. Che sia approdato ora a quella particolare dimensione della “parola innamorata” che sfocia in un aperto neo-ermetismo?

Antonio De Lisa

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