Antonio De Lisa – Recensione: Alessandro Rivali, “La caduta di Bisanzio”

Alessandro Rivali

La caduta di Bisanzio

Jaca Book, Milano 2010.

di Antonio De Lisa

Con la raccolta di poesie di Alessandro Rivali, La caduta di Bisanzio, Jaca Book, Milano 2010, ci imbattiamo in un genere poetico perlomeno inconsueto, potremmo chiamarlo “poesia storica”, nello stesso senso in cui parliamo di romanzo “storico”, anche se con alcune peculiarità di cui diremo. Non mancano in questa raccolta poesie ambientate nel presente o in un passato prossimo, ma il cuore pulsante del libro è al passato remoto: si tratti della “Caduta di Bisanzio”, che dà il nome all’intera raccolta, di “Pompei”, del “29 maggio 1453”, di “Giovanni della Croce”, dell’”Eldorado”, dei “Sacrari”, di “Persepoli”, della “Terra dei serpenti” o ancora della “Terra di Lamec” o infine di “Atlantide”, che sono appunto i titoli delle singole sezioni.

L’autore (nato a Genova nel 1977) ha svolto la sua tesi di laurea in storia militare, sull’immagine della guerra negli anni della Belle époque e in questo secondo libro di poesie (il primo, La Riviera di sangue, è uscito nel 2005, poi arricchito nel 2007) ne mette a frutto lezioni e suggestioni. Tuttavia, come vedremo, sotto i roghi e le macerie della storia forse cerca altro. Da questa ricerca si fa trasportare nelle epoche e nei luoghi, con scrupolo da archivista e piacere da sognatore.

In tale contesto non sorprende il costante tono epico che assumono i testi poetici, con curvature spesso bibliche. Il tempo preferito degli incipit è costantemente all’imperfetto o al passato remoto: “Era segno dell’armonia primaria”, “Il vento trascinava città / e disperdeva eserciti”, “La città moriva con il mare”. Anche quando il tempo dei verbi cambia, la tonalità è quella epica: “Raccontami ancora di Plinio”, “Apprenderai / la risalita dei pitoni, / il male invadere i pori, / la veglia assiderata di Macbeth”.

Di una strutturazione epica sono spie anche i costanti procedimenti metaforici o para-metaforici: “le spade che scucivano i ventri”, “i liquidi bollirono il ferro”, “Lo chiusero nella gabbia / per miniare la sua schiena / con discipline di ferro” (riferito a Giovanni della Croce), “Uomini ardevano nell’acqua”, “Intorno alla rocca le costole / sono le prime a spolparsi / arcate e strade di roditori”. Lo stesso riferimento alla figura del “drago”, che compare non meno di nove volte, è indizio di un’intenzione metaforica che qui si concretizza in un simbolo ben preciso, di fuoco e distruzione, non senza più sottili rimandi mitologico-cristiani: “Era una solitaria ascesi / nella lotta contro il drago”.

I testi sono ricchissimi di immagini da bestiario medievale e spesso in essi l’autore fa ricorso a un altro procedimento retorico di origine epica, l’enumerazione. Si prenda questa processione di serpenti: “mamba, aspidi, taipan, / crotali dei boschi, cobra / e mostri dalle bande brune”. Anche in altri luoghi troviamo elenchi fortemente evocativi, questa volta di città: “ Ecbatana / Persepoli, / Timbuctu, Janua / o Atlantis, / la luminosa”.

L’autore stesso ha dichiarato nelle note le sue fonti. Per Bisanzio si tratta de La caduta di Costantinopoli (vol.I. Le testimonianze dei contemporanei; vol. II, L’eco nel mondo, curato da Agostino Pertusi per la Fondazione Lorenzo Valla nel 1976. Per Agostino Pigafetta, il suo diario Relazione del primo viaggio intorno al mondo.

L’autore sembra decisamente innamorato dei suoi studi e della materia che tratta e in molti luoghi ne fa sentire la necessità e il piacere anche a chi legge. Si ha tuttavia l’impressione che l’autore si accontenti del fascino del contenuto, lasciando un po’ in ombra l’aspetto più propriamente poetico-stilistico. Non nuocerebbe affatto a molte poesie una loro stesura in prosa, anzi sembra che derivino da un’originaria stesura in prosa, anche se si tratta di una prosa che potremmo definire “d’arte”, raffinatissima. Negli esiti migliori è risolto con evidenza icastica il singolo sintagma o verso, che preso da solo è spesso memorabile: “Ricordami la seduzione del fuoco”. Il gioco delle ricorrenze foniche oscilla invece tra allitterazioni, assonanze e quasi-rime: “le travi carbonizzate dei piani. / Ricordi di acque e giardini / sulla pittura pompeiana” (corsivi miei). O soluzioni che sono senz’altro ben accette a chi le adotta ma possono anche sollevare qualche dubbio, per esempio: “le lance uscivano dalla fossa / sollevando una diga spettrale. / Era una terra amata dagli spiriti” (corsivi miei).

Con questo si vuole dire che l’aspetto propriamente poetico non sempre sorregge stilisticamente la dimensione visionaria e molte volte affascinante delle immagini e delle situazioni. Con tutta evidenza il poeta cerca attraverso questo viaggio nel passato della storia qualche cosa che va molto al di là. Si potrebbe dire che il cuore del problema si celi in questi cinque versi: “Non trovava il filo, / così spaccato dalle domande; / cercava la teologia nella storia, / dove risiedesse / la fonte dei cicli e dei ritorni”. Si tratta di domande molto impegnative. L’aspetto ammirevole consiste nel caricare la poesia ancora una volta del peso di queste domande, fiduciosi che essa possa portarle. In questa dignità riconferita al fare poetico risiede gran parte della forza di questo libro.

Antonio De Lisa

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