“Di una Maschera: in_vestimenti e ri_vestimenti”, di Rosella Corda

Di una Maschera

Il concetto di maschera nell’effetto del dispars differenziale:

in_vestimenti e ri_vestimenti desiderando

di Rosella Corda


Tutto ciò che è profondo ama la maschera[1].

F. Nietzsche

Paul Valéry ebbe una parola profonda: il più profondo è la pelle[2].

G. Deleuze

Noi crediamo al desiderio come all’irrazionale di ogni razionalità, e non perché sia mancanza, sete o aspirazione, ma perché è produzione di desiderio e desiderio che produce, reale-desiderio o reale in se stesso[3].
G. Deleuze – F. Guattari

Prologo: e la maschera…

Il termine “Maschera”[4], dall’incerta origine etimologica, deriverebbe dal latino medioevale di influenza più originariamente alto-tedesca Màsca, nel significato simbolico di Strega; o ancora dall’arabo Maschara, secondo altre ipotesi filologiche, nel significato di buffonata o burla, alludendo in un senso o nell’altro all’immagine di un cambiamento nell’aspetto prodotto da un camuffamento, da una dissimulazione, dal nascondimento di una cosa, principalmente il volto, come luogo principe del riconoscimento e dell’identità, mediante un’altra, di tipo similare e caricaturale di vario segno e valore. Così facendo, però, ciò che la maschera palesa indicandosi e dicendosi è l’immagine affascinante di un’inquietata e inquietante natura di ambiguità e doppiezza. Il riferimento concettuale è, dunque, immediatamente legato a un qualcosa di alterato, mobile, turbato, traslato. Un doppio che non è riconducibile all’identico nella misura in cui la maschera, pur combaciando nella sovrapposizione, contrassegnandosi e presentandosi indica uno scarto e una differenza che come tali sono dei mascheramenti ulteriori. Nel darsi maschera, essa produce maschere.

Occultare qualcosa di originario/originale mediante qualcos’altro sarebbe il mascherare; mentre lo smascherare sarebbe il levar via la maschera, apparendo così, sull’asse logico-temporale, successivo all’idea del mascheramento, riportando presumibilmente allo stadio iniziale l’operazione di camuffamento avvenuta. Solo nel  caso sia data l’identità come apriori, però, tale ripristino diventa praticabile; laddove da subito figura la maschera, infatti, è già in nuce uno s_mascheramento, inteso questo come il darsi due dell’uno, perché, altrimenti, essa non potrebbe neanche figurarsi, mostrandosi, al contrario, come volto pieno e non come maschera. Quando essa si s_porge, ri_velandosi, si è in quanto tale in sottrazione: affermazione e produzione di differenza, e lo smascherare è la ridondanza dell’ambiguità irriducibile data in essa. Una ridondanza che ne è il serbatoio virtuale. La maschera è già sempre s_mascheramento: riverbero delle serie, markers del divenire.

Portandosi sul piano semantico del mascheramento, dunque, si scivola sul piano sequenza finzionale di una realtà equivoca, letteralmente metaforica[5], portata e portante – flusso – in un fuori che non è mai allo scoperto e che sempre ci espone all’ombra dell’inganno. Dove l’originario/originale, cioè, è di fatto sempre perduto perché recuperato e ricostruito a posteriori sotto effetto di un sentimento nostalgico di pienezza decaduta.  La maschera, insomma, sfugge alla domanda univoca di cosa essa sia, perché la domanda che viene a interessarla è già nella sua trappola: è già, a sua volta, da prima inquietata e questionata dal mascheramento stesso. La maschera non è se non maschera, ma questa ostensione di sé significa questione problematica sull’essere. Cos’è essere, alla luce obliqua della maschera?

Il meccanismo dia_bolico e senza salvezza avviato dal germe cristallino – moltiplicazione dei riflessi – della maschera logora qualunque pretesa di presenza totale cui si opponga un opposto intatto, svelando la diagonale tagliente di un fuori progressivo e paradossale cui non si oppone alcun Interno – prioritariamente identitario. La maschera segna il collasso dell’al di là nell’al di qua affermando la differenza come scarto, affermando l’inclusione necessaria dell’espulsione del fuori: esternalizzazione progressiva data dalla e nella piegatura relativa di un punto di vista. Apertura di uno squarcio.

È il radicamento del punto di vista, la maschera labile del profilo[6]. Esternalizzazione del volto, la maschera è la possibilità virtuale stessa del volto, segno del volto come sua é_criture (es_crizione): possibilità di esistenza dei suoi livelli di composizione mobile ed espressiva. Affacciandosi e sporgendosi, dicendo_si dice duale. Dice la femmina che stride e lacera, dice la piega del dispars intensivo che strega.

Cos’è la maschera….

Lividura cromatica, contusione col mondo da cui nella schisi della percezione si aprono i mondi come possibili: maschere e bisogno della maschera.

Radicamento e apriori empirico, la maschera può solo essere rievocata e ripetuta nel rituale del dato e individuato darsi-da pensare desiderante.

Può solo essere seguita lungo la linea di fuga[7] e di frattura del tratto desiderante di un profilo – conatus[8].

 

Sulle tracce[9] di una[10] maschera – il pathos della sintesi disgiuntiva[11].

Morbidamente lascio scorrere il pennello, imbevuto d’olio tinto, a stingersi sul supporto appena indovinato, liscio, di una tela che non so più su quali piedi concettuali, ad aspettare, sia poggiata… Maschero. Maschero e insudicio. Maschero il bianco, piatto, assolato, oggettuale supporto usando la tumultuosità intensiva di un cromatismo densamente incosciente – a-progettuale. La lingua porpora s’allunga e scava il suo decorso a defluire verso l’esterno del margine atemporale dello strato rivestito, fino a seccarsi esangue – come quando si è parlato troppo. Essendo sé, solco, linea, essa de_linea la gemella, doppiando mentre il mio gesto è già sdoppiato; e se il mio gesto si disfa in segno pastoso, essa si disfa trasmutando in altro colore. Il tratto è fratto – diviso. Maschera che Smaschera, de_forma. Scarto la flessuosità della mano nella trasmissione macchinica alla liquidità delle setole piegate, per le setole piegate. E le setole si piegano e si eclissano nella traccia, che a sua volta scarta il supporto come tale, inquietando la sua composta pace pallida. Polemos denunciato, aperto nei sottopassaggi dei sensi fino ai sensi signi_ficati: è smascherato il disegno, svelando una compulsiva emersione tumefatta, vissuta. Un essenziale affrancamento progressivo, nella lotta, è il farsi simultaneo di una serie di disegni, cerchi nell’aria di una storia biografica, dipingendo intensivamente la molteplicità integrale del dato. Sulla tela. La tela immaginata.

De_siderando il dipingere penso, e immaginando sfilo idee dalle idee, differisco, trascino, vel fratto vel, progressivamente, un tuffo nella rarefazione onirica che riprecipita nel risvegliato bisogno di scrittura. Altro scarto. Scambio. Gioco di parti e travestimenti. Altri differimenti. Ancora maschere. Distanza moltiplicata dal Siderum, paradiso eterno di una stella fissa nella realtà di un cielo già sempre sommosso. I sensi. Perché desiderare di dipingere? La madelaine, un profumo, l’odore acre dell’acqua ragia o il ricordo dello scorrere mai ostativo di quel flusso, quella linea, continua e mutante al tempo stesso, sublimazione di ogni carne sofferente, spina senz’ago – non punge – unge, eppure sgorga, solo vita, solo sanguinamenti polìcromi, affermazioni in_tatte, dove l’in non è privativo, mai? Sì. La sensazione e il sollievo di una commutazione che ripete una nenia, canto d’uccelli sulla tela. Circoli, ghirigori, nodi. Ricami e richiamo territoriale. Dimora. Doppio della dimora. Quella dimora. Sì, sensazioni schiuse al bivio tra la maschera della maschera e la maschera della pelle. Altre sensazioni. Altre significazioni, rimandi a più livelli, più strati. Fino alla polvere granulosa e umida delle cellule. Il gesto simula e affranca, simula e libera affermando la serie delle disgiunzioni. Affermando concatenamenti sbocciati dal ventre caotico del virtuale. Un’ispirazione di vita. Maschere. Si narra che alla nascita, prima ancora di uno qualunque dei nostri scimmiottamenti logo-espressivi, linguistici, argomentativi, retorici; prima ancora di una qualunque delle nostre migliori umanistiche e ornate, efficaci, efficienti parole; prima ancora di qualunque razionalità, come segno animale, da animali caldi e vibranti, riceviamo il massimo del dono. Senza nessuna dispendiosa costruzione di domanda, senza averne, di domande, bensì essendo domanda, strumo eccitato di vita, dalla vita abbiamo il più stretto degli abbracci. Siamo vivi. E, nello iato della sproporzione tra il non richiesto e il ricevuto, si apre tutto lo svantaggio in cui si annaspa per ripetere, in ogni modo, l’appagamento di quello stesso appagamento. Germe del desiderio. E più artefatta e ostinata si fa la ricerca, più avvilente il ritorno, il guadagno. Meraviglia ci vuole, per ripetere quell’appagamento. Senso animale. Tornare strumo di vita per ritrovare la vita. Desiderio nel desiderio. Non dal nulla della parola cui si oppone il silenzio, ma dal calore cui si avvicina calore. Voce. Intensità affettiva. Affermazione della carne. Musica della carne. Ritornello e dimora nella meraviglia. O parola emotiva, che sappia farsi densa, pennello, scivolando ovunque, affermando forme da forme.

In ogni modo… Se la parola razionale (esiste?) divide e separa, scioglie e segmenta il flusso dell’abbraccio, a rubarne i segreti per ripeterlo identico, ricreandolo astratto e generico nella definizione metallica di una cinica computazione spiegata, paga della presunzione di diradare le nebbie vaghe dell’allusivo e riportando la presenza al vero e l’assenza al falso, rappresentando, ripresentando, scartando quindi nel senso dell’esclusione (aut-aut), la parola emotiva è invece pienamente desiderante, fantastica, scartando nel segno dell’inclusione virtuale (vel/vel), smascherando nel senso di mantenere la possibilità stessa della maschera nello s_mascheramento – se la maschera è il doppio nella differenza. Mossa, fumosa come uno scatto mal preso, confusa perché fusa-con, contaminante e concatenante, la parola emotiva, arrivando e derivando, è pregna come nube di pioggia, di storia, aria rappresa in acqua a cadere. Ripete sì un ciclo; ma il ciclo e il suo anello non sono il circolo vizioso del capriccio dell’identico: “voglio l’amore, ecco l’amore”, retto sul perno dell’”è”, l’essere delle equivalenze logiche, senso e significato in un rispecchiamento saturo, senza scarti perché lo scarto è negativamente assoluto. L’appagamento non si consegue come un progetto programmato nelle più isometriche delle simmetrie. Che fine farebbe il flusso del disegno, l’atto complesso e complicato, complesso e complicato, del tornare a sé, alla propria dimora, all’etica della meraviglia vivente, se razionalizzato? Metti ali di cera a Icaro e sterile sarà il suo volo. Se è, è. Se non è, non è. Ma se è – ed è in pace – perché  desiderare? Ecco che dal nulla è creato l’essere, dalla colpa si fa il desiderio, a sua immagine. Ma che desiderio è un desiderio creato che non può creare, che non s’incrina e perdura? Un desiderio sterile, cinico. Che canta in circolo la sua canzone. Ripete narcisisticamente l’astratto nel genere, per poi morire ingoiato nelle fiamme. Il presimbolico è altro dalla computazione ben ordinata dei simboli. Si desidera nel pudore del mascheramento, ma il mascheramento è prima di tutto intensivo, poi metaforicamente rappresentazionale. La genesi del desiderio non si dà nella creazione del pieno dal nulla, ma nel concatenamento di figli (pseudos) da figli (pseudos…), in cui non c’è una copia madre da ripetere identica, una matrice o uno stampino che riproducono e scartano, tenendo fermo il divenire nella presa dell’essere. La maschera è un simul, non un non-essere; è uno spostamento, uno slittamento, uno scivolamento. Il germe intensivo della differenza che differenzia. E intanto passa perché conserva. Se recidiamo la mano del gesto, arriviamo alla linea? Et-et, vel/vel, la disgiunzione è affermata, il non-è è problema, questione ribadita. Domanda desiderante sulla scia e la linea, la serie degli abbracci. Il mascheramento nel flusso che fa il flusso. La parola emotiva desiderando mente; eppure non si tratta della menzogna del seduttore, il quale è in malafede. La parola emotiva mente perché confida solo nella menzogna presa reciprocamente per vera. La sproporzione desiderante rimane inalienabile – il desiderio è alienazione in vista di nessuna escatologia presupposta – eppure questo slittamento e le sue ripetizioni differenziali vengono accettate e con ciò integralmente assunte e rievocate. Il non-essere del presimbolico non è il vuoto, non è silenzio, non è nulla perché è già nascita, è già “cosa”, ente, e l’ente non è nulla; eppure quella “cosa” è origine in quanto vulnerabilità, origine patica, un vuoto pieno, una molteplicità data, colta e goduta che può solo essere rivestita e in questo processo lasciar scorrere l’abaco del senso. Il discorso desiderante, il delirio. La serie dei camuffamenti. La ribadita domanda di intensità affettiva che siamo, travestiti da noi stessi, ognuno all’opera nel proprio scarabocchio.

Con le idee sporche di colore, è o e il desiderio della maschera (?)

Rosella Corda

@ Tutti i diritti riservati


[1] F. Nietzsche, Al di la del bene e del male (scritto a partire dal 1885 e stampato nel 1886).

[2] G. Deleuze, Logica del senso (1969).

[3] G. Deleuze – F. Guattari, L’Anti-Edipo (1972), primo volume dell’opera scritta “tra-due” Capitalismo e schizofrenia, cui segue il celebre Mille Piani (1980).

[4] In francese masque, inglese mask, tedesco die Maske. Sebbene l’oggetto sia di uso antichissimo, non altrettanto si rileva del termine a esso riferito. In latino, infatti, la stessa cosa era indicata con la parola persona, di probabile derivazione dal greco prósōpon, nella mediazione etrusca di phersu, con il significato letterale di “per il volto” o “adatto al volto” o, semplicemente, “volto”; o ancora, secondo un’altra interpretazione etimologica, derivante direttamente dal verbo per-sono nel significato di “suonare attraverso”, risuonare, in riferimento al fatto che la voce degli attori risuonasse all’interno dell’artefatto indossato per via di un megafono predisposto allo scopo. I due termini, quindi, di maschera e persona, dall’origine diversa ma indicanti la stessa cosa, si sarebbero affermati in un significato opposto solo più tardi, continuando a sottolineare da un lato il fatto comune dell’individuazione e del riconoscimento, per l’altro i differenti sviluppi e indirizzi semantici. La maschera viene infatti ad alludere a una individuazione e identità problematiche, mentre la persona indicherebbe l’identità umana nel senso di fatto più pregnante e autentico.

[5] Dal greco metà e phoreo, nel significato di “portare oltre”, tras_portare o trans_portare.

[6] Nel senso di “linea di contorno” che si pone, in sineddoche, a indicare il meccanismo figurale dell’individuazione della forma, in questo caso su di un piano dove essa è data come contenuto.

[7] Si rinvia al concetto di G. Deleuze e F. Guattari e al loro “piano di immanenza”, o alla recente analisi critica Linee di fuga.  Nietzsche, Foucault, Deleuze (U. Fadini, S. Berni).

[8] Il concetto menzionato è quello tipicamente spinoziano. Il senso specifico è “sforzo”, “tentativo”.

[9] Per un’analisi del significato filosofico del concetto di “traccia” si rinvia all’opera di J. Derrida e, più dettagliatamente, all’uso interpretativo che se ne fa, ad esempio, nel lavoro dedicato ai disegni di A. Artaud, Forsennare il soggettile.

[10] L’uso dell’indeterminativo è qui ripreso per riferirsi al dato empirico nella sua molteplicità, refrattario, dunque, alla riduzione apriorica e metafisica rappresentata, invece, dal determinativo.

[11] Per spiegare brevemente cosa si intende per “sintesi disgiuntiva” introduciamo e precisiamo il significato dei due termini: “sintesi” dal greco synthesis, composto di syn e thesis nel significato di “porre insieme”; e “disgiuntivo”, dal latino disjungere nel significato negativo e sottrattivo di separare ciò che sarebbe giunto, unito. “Sintesi disgiuntiva” sarebbe allora una contradictio in adiecto, dove cioè l’attributo è in contraddizione con quanto è espresso dal sostantivo. Si tratterebbe allora di non-senso? Vediamo come, invece, questa locuzione si spiega. Il filosofo G. Deleuze usa l’espressione riferendosi alla teoria del senso e dell’evento, in un volume, tra gli altri, dal titolo Logica del senso (1969). Proprio qui, infatti, tale espressione trova la sua applicazione riferendosi alla struttura logica della genesi e della produzione del senso, con un richiamo esemplificativo allo stile fantastico di Lewis Carroll (per esempio le sue “parole baule”, dove in una sono tenute insieme serie semantiche diverse). Ci sarebbero tre tipi di sintesi, scrive Deleuze, quella connettiva (se…allora), che porterebbe alla costruzione di una sola serie; quella congiuntiva (e), che invece porterebbe alla costruzione di serie convergenti; e la sintesi disgiuntiva (o) che ripartirebbe serie non convergenti. Se però la divergenza delle serie è come tale affermata, essa diventa una sintesi. Dunque è l’affermazione a tenere insieme le divergenze, affermate insieme come tali. L’incompossibile è ciò che viene indicato dall’affermazione della disgiunzione (o) e sta spesso a indicare la virtualità della differenza che differenzia: vel/vel. Ciò indicherebbe, sul piano del linguaggio, che il non-senso, l’escluso dal senso, sarebbe in realtà ciò che consente lo scorrimento-attualizzazione del senso e che senso e non-senso si darebbero nell’uno della molteplicità. La metafora della maschera, allora, è qui proposta a indicare, come immagine e simulacro, il motore di questo meccanismo disgiuntivo e sintetico al tempo stesso, un tempo che non è Cronos (tempo cronologico) ma Aion (temporalità in_finita e diveniente). Una scrittura metaforicamente immediata e mascherante, paradossale, per tentare in pratica l’affermazione teorica.

Rosella Corda

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